giugno 20, 2012

Sugli esami di maturità


Porcatroia già diec’anni dalla maturità, stamattina m’ha preso un brivido quando aprendo l’homepage de lastampa.it m’è venuto in mente sto dettaglio. E lo so che è banale forte scriverci sopra un post “i miei esami”, però ne ho letti tanti di ricordo in occasione dell’anniversario dalla morte di Falcone del genere “ricordo che mentre bevevo una tazza di latte in cucina arrivò la notizia dell’attentato”.

Il 2002 erano i Mondiali in Asia e sta Corea che c’aveva appena buttato fuori, un caldo boia e la mia AX senz’aria condizionata sulla statale per Alcamo. E di tensione neanche a parlarne, almeno i giorni delle prove scritte, anzi un senso di sollievo che con la matematica si smetteva per sempre (quanto me ne sarei pentito, poi!).

Era la nostra prima squadra di calcetto in un torneo contro i grandi, e io che, per quello sì, non ci dormivo la notte, a pensare che si potesse fare brutta figura, e invece poi arrivammo secondi nel girone e a cacciarci dal campionato furono solo i rigori, ai quarti.

E poi andarsene al mare il pomeriggio del quizzone, strappare un foglietto dal bignami per il compito di matematica, scrivere il foglio di presentazione alla tesina per gli orali con il font de I Simpson, gli insegnanti di italiano e matematica che litigano alla presentazione dei temi, il presidente che forse è un ologramma perché non lo vediamo mai.

Della mia prima prova ricordo che ho affrontato l’argomento storico, ho composto una boiata anticlericale parlando di Giovanni XXIII e al mio prof fece veramente schifo e io non so che darei per rileggerlo adesso e capire che sarà mai venuto fuori dallo studente presuntuoso e ignorante di allora.

E oggi, invece, sono qua a lavorare mentre una caterva di ragazzi, un’altra, salta la barricata dall’adolescenza all’età adulta. E io vorrei riprendere Nizan, come ha scelto il Ministero, e allora va bene, non permettete a nessuno “di dire che questa è la più bella età” della vostra vita, ma sappiate che di sicuro è quella in cui c’è più tempo per godersela.

giugno 15, 2012

Una serata qualunque


Che quando si dice degli uffici grigi, e bigi, e invece a Catania nel cortile CGIL l’edera va rampicando sui muri più alti e a metà giugno è tutto un trionfo di foglie verdi e fiori ciclamino dentro uno spiazzo bellissimo, sicché ci organizzano esposizioni e convegni e serate come quelle di ieri. Una serata afro.

A entrare si notano subito questi drappi di cerata che dall’alto piombano giù coi loro colori vivaci, fantasie variopinte di terre lontane. C’è il pieno di gente, qualcuno se ne sta seduto a sbevacchiare ai tavolini sulla destra, proprio accanto a un cocktail bar improvvisato all’aperto con tutte i suoi liquori dalle etichette colorate in bella mostra.

Da quest’altra parte, proprio accanto all’ingresso, una scrivania è il podere di una matrona con un frigorifero portatile verdognolo, di quelli che le famiglie palermitane ci si portano al mare l’intero pranzo. Dentro ci sono una caterva di bottiglie d’acqua minerale riempite di nonsocché, due robe diverse che potrebbero essere rispettivamente vino rosso e aranciata. Ma chiaramente non lo sono.

Poco più avanti, il solito banchetto di oggetti curiosi che a vederli così uno vicino all’altro ti vien sempre voglia di comprarli tutti ma che poi, quella rara volta che ti decidi a farlo, a casa non ci trovi proprio una funzione né una postazione che sia capace di farli sembrare di nuovo così attraenti.

Di fronte, una pedana in legno fa da palco per un complesso di senegalesi in cui il cantante che ha questa voce un po’ rauca, e dietro un tambureggiare continuo e poi questo strumento che non ho mai visto che si chiama proprio “chitarra senegalese”, e infine una ragazza che deve saperla lunga è l’unica bianca del gruppo e strimpella una specie di xilofono.

L’amico Moussa mi spiega che il contenuto delle misteriose bottiglie è in un caso ginger, che è afrodisiaco e “se te lo bevi stanotte non dormi” (povero me), nell’altro fiori di ibiscus ed è proprio quello per cui opto, un sapore dolciastro che alla lunga stufa ma che avrà pure lui una sua ragione.

L’ibiscus deve evidentemente avere questo potere magico di sciogliere le membra e piano piano convincerti per forza a seguire il ritmo bongheggiante a cui già si stanno dimenando tutti, in un tripudio di mani che ondeggiano e di anche snodabili che paiono staccarsi dal corpo in cui stanno.

Insomma è un seratone in cui tutti s’affratellano nel ballo, treccine svolazzanti e chignon di ricci, tuniche multicolor e amazzoni nere avvenenti da spavento, e l’erotismo nell’aria si taglia a fette e le ragazze sono tutte un feromone mentre un ballerino dà il meglio di sé giocando a spogliarsi di quel che ha addosso.

Non lo so, ma a me pare una di quelle cose che servono più di tante chiacchiere barbose sul multiculturalismo di cui mi ricordo all’università, perché alla fine non c’è niente di più rivelatore del banale scoprire che tutti finiscono per divertirsi nello stesso modo facendo un po’ di rumore e ballandoci su.

giugno 07, 2012

Tutto perfetto (Senza errori non si ha mai felicità)

Sparito per andarsene a Londra, ma ti rendi conto? E tutti come le bestie impazzivamo per cercarlo! Io ancora mi ricordo, amore, di quando l’abbiamo conosciuto. Era una festa a casa di qualcuno e Antonio era vestito da hawaiana, dentro quella calzamaglia nera le sue gambe lunghe lunghe parevano ancora più secche. La parte più bella però era senz’altro la gonnellina di raffia, che lo faceva sembrare un’indigena per davvero, pure con tutta la barba da comunista che si portava dietro. Che forza la nostra comitiva!


È tornato, ti dicevo, l’ho rivisto stamattina, s’era stancato, tutto il mondo è paese, proprio così m’ha detto, papale banale che tutto il mondo è paese e Londra è uguale all’Italia e allora se ne va in Mongolia a pascere pecore e chi s’è visto s’è visto. Ma un momento, perché dirtelo adesso, perdio, mentre mi dormi accanto, invece di sussurrarti all’orecchio parole d’amore qualsiasi?
I nostri vecchi sabato mattina. Dal corridoio il sole penetrava la vetrata. Smettevo di dormire e ti guardavo. Tu nuda, sulla schiena. Trentatré vertebre, il mio naso le percorreva. Una per una, da Atlante al coccige in ottanta giorni. Forse di più. “Ti fissavo, poi mi muovevo e ti svegliavo”, faceva così? Era dolce persino sentirti lamentare, del tavolino spostato se ci sbattevi un ginocchio, di un libro in cui mezza addormentata inciampavi, una penna che cadeva. Musica, anche una frase stupida. “Quanto casino lasci in questa stanza?”.


       Ma ora è tutto perfetto. In ordine, il tavolo. I libri, nell’angolo. Le penne, non cadono. La mia stanza minuscola s’è allargata parecchio, i cappotti sull’attaccapanni dietro la porta e non più sulle ante aperte del piccolo armadio, che è al centro dell’altra parete tra un ammasso di tomi e la scrivania a fare anche da appoggio per lo stereo. Dalla parte opposta, quella tv di vent’anni fa se ne sta sul suo mobiletto marrone a fissarci tremolante, noi lontanissimi su questo letto una piazza e mezza. Abbiamo razionalizzato tutto, tesoro, che bravi che siamo stati.
E ora le mie labbra, merda, si schiudono appena per dirti di Antonio, che non è manco il gran genio che si sente anzi, lo vuoi sapere?, mi sta proprio sui coglioni. E tutto questo invece di sfiorare leggère la pelle di un corpo che conosco a perfezione. Proprio come la mappa di Calatafimi. Conoscerci era organizzare quella caccia al tesoro, segnare un punto in piazza Mazzini e baciare il neo sul tuo ginocchio sinistro, con le dita percorrere corso Garibaldi e le tue vene in bella vista sull’avambraccio, sulla cartina disegnare un cerchio e sulla pancia farti il solletico.

Finalmente ho capito, piccola mia, a cosa serviva il disordine di questa stanza. Il nostro amore ci si nascondeva benissimo, dev’essere così che sopravviveva all’organizzazione precisa della vita vera là fuori. In fondo l’amore è caos, o no? La tempesta perfetta che ti sconvolge e fa pulizia dentro il tuo marcio, dicono. Adesso che abbiamo rassettato, dove potrebbe mai andare a cacciarsi, il nostro povero amore, senza farsi beccare?




La nostra storia è finita. Non da dieci minuti. Non sulle scale di casa tua. Non con te che mi urli di andare. La nostra storia è finita. Chissà quanto tempo fa. Sui gradini della chiesa, la mia prima sigaretta, la prima di una vita nuova. È ancora presto, aspetto che di fronte apra la tintoria. Pollice e indice, prendo la cicca e la caccio via. La nostra storia è finita quando ho smesso di fumare.
L’orologio della farmacia nella piazza segna esattamente le quindici e cinquanta, la signora con un chihuahua nella borsa si nasconde dietro gli occhiali scuri di Prada e in equilibrio sul suo tacco dodici semina sciccheria. Tra noi non è finita nemmeno stamattina, litigando in cucina mentre mi lanci il tuo robottino ancora acceso che roteando spara bucce di carote. È finita quando ho smesso di guardare il culo di signore come questa. Perché poi ho dimenticato com’era tondo il tuo.

Seduto qua è davvero poetico quell’angolino col suo vecchio lampione romboidale, l’asse di ferro che lo sostiene fa un sacco neorealismo, l’avvocato prova a rovinarlo passandoci sotto, schiva una pozzanghera e poi si dirige in ufficio con il Corriere della Sera sotto l’ascella destra. Non è finita neanche stanotte, amore mio, stanotte che rientrando hai trovato il biglietto firmato “Michela” nel mio cappotto e scritto sopra “Ti amo tanto”. È finita quando ho smesso di incuriosirmi della gente intorno.
Ogni dettaglio è in armonia con il quadro, pomeriggio di centro città, la sua figura arriva d’un tratto a sfasciare l’equilibrio. A passo accelerato, una borsa di pelle in una mano e un impermeabile beige da ispettore Zenigata appoggiato a metà dell’altro braccio, lo vedi correre verso la sua donna. Tanto è avulso da quell’ambiente quanto sudato, sotto le lenti rettangolari un’aria leggermente antiquata. E lei lì, piena di buste ad aspettarlo, che scoppia a ridere davanti al suo affanno. Gli asciuga le guance che colano, ci stampa sopra un bacio. La nostra storia è finita, bella mia. È finita quando abbiamo smesso di essere loro.

E giusto per tua informazione, la Michela del biglietto non è affatto una puttana. O almeno non lo so. Ben che vada sarà la ragazza del proprietario dello spolverino in cui l’hai trovato. Sono meno cinque, a momenti riapre la tintoria e mi ridanno il mio. Ma che sto a spiegartelo, ormai. È tutto perfetto, la nostra storia è finita.