Porcatroia già diec’anni dalla maturità, stamattina m’ha
preso un brivido quando aprendo l’homepage de lastampa.it m’è venuto in mente
sto dettaglio. E lo so che è banale forte scriverci sopra un post “i miei
esami”, però ne ho letti tanti di ricordo in occasione dell’anniversario dalla
morte di Falcone del genere “ricordo che mentre bevevo una tazza di latte in
cucina arrivò la notizia dell’attentato”.
Il 2002 erano i Mondiali in Asia e sta Corea che c’aveva
appena buttato fuori, un caldo boia e la mia AX senz’aria condizionata sulla
statale per Alcamo. E di tensione neanche a parlarne, almeno i giorni delle
prove scritte, anzi un senso di sollievo che con la matematica si smetteva per
sempre (quanto me ne sarei pentito, poi!).
Era la nostra prima squadra di calcetto in un torneo contro
i grandi, e io che, per quello sì, non ci dormivo la notte, a pensare che si
potesse fare brutta figura, e invece poi arrivammo secondi nel girone e a cacciarci
dal campionato furono solo i rigori, ai quarti.
E poi andarsene al mare il pomeriggio del quizzone,
strappare un foglietto dal bignami per il compito di matematica, scrivere il
foglio di presentazione alla tesina per gli orali con il font de I Simpson, gli insegnanti di italiano e matematica
che litigano alla presentazione dei temi, il presidente che forse è un
ologramma perché non lo vediamo mai.
Della mia prima prova ricordo che ho affrontato l’argomento
storico, ho composto una boiata anticlericale parlando di Giovanni XXIII e al
mio prof fece veramente schifo e io non so che darei per rileggerlo adesso e
capire che sarà mai venuto fuori dallo studente presuntuoso e ignorante di
allora.
E oggi, invece, sono qua a lavorare mentre una caterva di
ragazzi, un’altra, salta la barricata dall’adolescenza all’età adulta. E io
vorrei riprendere Nizan, come ha scelto il Ministero, e allora va bene, non
permettete a nessuno “di dire che questa è la più bella età” della vostra vita,
ma sappiate che di sicuro è quella in cui c’è più tempo per godersela.
Che quando si dice degli uffici grigi, e bigi, e invece a Catania
nel cortile CGIL l’edera va rampicando sui muri più alti e a metà giugno è
tutto un trionfo di foglie verdi e fiori ciclamino dentro uno spiazzo
bellissimo, sicché ci organizzano esposizioni e convegni e serate come quelle
di ieri. Una serata afro.
A entrare si notano subito questi drappi di cerata che dall’alto
piombano giù coi loro colori vivaci, fantasie variopinte di terre lontane. C’è
il pieno di gente, qualcuno se ne sta seduto a sbevacchiare ai tavolini sulla
destra, proprio accanto a un cocktail bar improvvisato all’aperto con tutte i
suoi liquori dalle etichette colorate in bella mostra.
Da quest’altra parte, proprio accanto all’ingresso, una
scrivania è il podere di una matrona con un frigorifero portatile verdognolo,
di quelli che le famiglie palermitane ci si portano al mare l’intero pranzo. Dentro
ci sono una caterva di bottiglie d’acqua minerale riempite di nonsocché, due
robe diverse che potrebbero essere rispettivamente vino rosso e aranciata. Ma chiaramente
non lo sono.
Poco più avanti, il solito banchetto di oggetti curiosi che a
vederli così uno vicino all’altro ti vien sempre voglia di comprarli tutti ma
che poi, quella rara volta che ti decidi a farlo, a casa non ci trovi proprio
una funzione né una postazione che sia capace di farli sembrare di nuovo così attraenti.
Di fronte, una pedana in legno fa da palco per un complesso di
senegalesi in cui il cantante che ha questa voce un po’ rauca, e dietro un
tambureggiare continuo e poi questo strumento che non ho mai visto che si
chiama proprio “chitarra senegalese”, e infine una ragazza che deve saperla
lunga è l’unica bianca del gruppo e strimpella una specie di xilofono.
L’amico Moussa mi spiega che il contenuto delle misteriose
bottiglie è in un caso ginger, che è afrodisiaco e “se te lo bevi stanotte non
dormi” (povero me), nell’altro fiori di ibiscus ed è proprio quello per cui
opto, un sapore dolciastro che alla lunga stufa ma che avrà pure lui una sua
ragione.
L’ibiscus deve evidentemente avere questo potere magico di
sciogliere le membra e piano piano convincerti per forza a seguire il ritmo bongheggiante
a cui già si stanno dimenando tutti, in un tripudio di mani che ondeggiano e di
anche snodabili che paiono staccarsi dal corpo in cui stanno.
Insomma è un seratone in cui tutti s’affratellano nel ballo,
treccine svolazzanti e chignon di ricci, tuniche multicolor e amazzoni nere avvenenti
da spavento, e l’erotismo nell’aria si taglia a fette e le ragazze sono tutte
un feromone mentre un ballerino dà il meglio di sé giocando a spogliarsi di
quel che ha addosso.
Non lo so, ma a me pare una di quelle cose che servono più
di tante chiacchiere barbose sul multiculturalismo di cui mi ricordo all’università,
perché alla fine non c’è niente di più rivelatore del banale scoprire che tutti
finiscono per divertirsi nello stesso modo facendo un po’ di rumore e
ballandoci su.
Sparito per
andarsene a Londra, ma ti rendi conto? E tutti come le bestie impazzivamo per
cercarlo! Io ancora mi ricordo, amore, di quando l’abbiamo conosciuto. Era una
festa a casa di qualcuno e Antonio era vestito da hawaiana, dentro quella
calzamaglia nera le sue gambe lunghe lunghe parevano ancora più secche. La
parte più bella però era senz’altro la gonnellina di raffia, che lo faceva
sembrare un’indigena per davvero, pure con tutta la barba da comunista che si
portava dietro. Che forza la nostra comitiva!
È tornato, ti dicevo,
l’ho rivisto stamattina, s’era stancato, tutto il mondo è paese, proprio così
m’ha detto, papale banale che tutto il mondo è paese e Londra è uguale
all’Italia e allora se ne va in Mongolia a pascere pecore e chi s’è visto s’è
visto. Ma un momento, perché dirtelo adesso, perdio, mentre mi dormi accanto,
invece di sussurrarti all’orecchio parole d’amore qualsiasi?
I nostri vecchi
sabato mattina. Dal corridoio il sole penetrava la vetrata. Smettevo di dormire
e ti guardavo. Tu nuda, sulla schiena. Trentatré vertebre, il mio naso le
percorreva. Una per una, da Atlante al coccige in ottanta giorni. Forse di più.
“Ti fissavo, poi mi muovevo e ti svegliavo”, faceva così? Era dolce persino sentirti
lamentare, del tavolino spostato se ci sbattevi un ginocchio, di un libro in
cui mezza addormentata inciampavi, una penna che cadeva. Musica, anche una frase
stupida. “Quanto casino lasci in questa stanza?”.
Ma ora è tutto
perfetto. In ordine, il tavolo. I libri, nell’angolo. Le penne, non cadono. La
mia stanza minuscola s’è allargata parecchio, i cappotti sull’attaccapanni dietro
la porta e non più sulle ante aperte del piccolo armadio, che è al centro dell’altra
parete tra un ammasso di tomi e la scrivania a fare anche da appoggio per lo
stereo. Dalla parte opposta, quella tv di vent’anni fa se ne sta sul suo
mobiletto marrone a fissarci tremolante, noi lontanissimi su questo letto una
piazza e mezza. Abbiamo razionalizzato tutto, tesoro, che bravi che siamo
stati.
E ora le mie
labbra, merda, si schiudono appena per dirti di Antonio, che non è manco il gran
genio che si sente anzi, lo vuoi sapere?, mi sta proprio sui coglioni. E tutto
questo invece di sfiorare leggère la pelle di un corpo che conosco a
perfezione. Proprio come la mappa di Calatafimi. Conoscerci era organizzare quella
caccia al tesoro, segnare un punto in piazza Mazzini e baciare il neo sul tuo ginocchio
sinistro, con le dita percorrere corso Garibaldi e le tue vene in bella vista
sull’avambraccio, sulla cartina disegnare un cerchio e sulla pancia farti il
solletico.
Finalmente ho
capito, piccola mia, a cosa serviva il disordine di questa stanza. Il nostro
amore ci si nascondeva benissimo, dev’essere così che sopravviveva all’organizzazione
precisa della vita vera là fuori. In fondo l’amore è caos, o no? La tempesta
perfetta che ti sconvolge e fa pulizia dentro il tuo marcio, dicono. Adesso che
abbiamo rassettato, dove potrebbe mai andare a cacciarsi, il nostro povero
amore, senza farsi beccare?
La nostra
storia è finita. Non da dieci minuti. Non sulle scale di casa tua. Non con te
che mi urli di andare. La nostra storia è finita. Chissà quanto tempo fa. Sui
gradini della chiesa, la mia prima sigaretta, la prima di una vita nuova. È ancora
presto, aspetto che di fronte apra la tintoria. Pollice e indice, prendo la
cicca e la caccio via. La nostra storia è finita quando ho smesso di fumare.
L’orologio
della farmacia nella piazza segna esattamente le quindici e cinquanta, la
signora con un chihuahua nella borsa si nasconde dietro gli occhiali scuri di Prada
e in equilibrio sul suo tacco dodici semina sciccheria. Tra noi non è finita nemmeno
stamattina, litigando in cucina mentre mi lanci il tuo robottino ancora acceso
che roteando spara bucce di carote. È finita quando ho smesso di guardare il
culo di signore come questa. Perché poi ho dimenticato com’era tondo il tuo.
Seduto qua è davvero
poetico quell’angolino col suo vecchio lampione romboidale, l’asse di ferro che
lo sostiene fa un sacco neorealismo, l’avvocato prova a rovinarlo passandoci sotto,
schiva una pozzanghera e poi si dirige in ufficio con il Corriere della Sera
sotto l’ascella destra. Non è finita neanche stanotte, amore mio, stanotte che rientrando
hai trovato il biglietto firmato “Michela” nel mio cappotto e scritto sopra “Ti
amo tanto”. È finita quando ho smesso di incuriosirmi della gente intorno.
Ogni dettaglio
è in armonia con il quadro, pomeriggio di centro città, la sua figura arriva d’un
tratto a sfasciare l’equilibrio. A passo accelerato, una borsa di pelle in una
mano e un impermeabile beige da ispettore Zenigata appoggiato a metà dell’altro
braccio, lo vedi correre verso la sua donna. Tanto è avulso da quell’ambiente
quanto sudato, sotto le lenti rettangolari un’aria leggermente antiquata. E lei
lì, piena di buste ad aspettarlo, che scoppia a ridere davanti al suo affanno.
Gli asciuga le guance che colano, ci stampa sopra un bacio. La nostra storia è
finita, bella mia. È finita quando abbiamo smesso di essere loro.
E giusto per
tua informazione, la Michela del biglietto non è affatto una puttana. O almeno
non lo so. Ben che vada sarà la ragazza del proprietario dello spolverino in
cui l’hai trovato. Sono meno cinque, a momenti riapre la tintoria e mi ridanno
il mio. Ma che sto a spiegartelo, ormai. È tutto perfetto, la nostra storia è finita.