E ora che il
sole spunta dalla notte passata in bianco, di lei gli restano solo l’accendigas
che le aveva comprato perché le sue dita non avessero a bruciarsi, certe facce
buffe con l’occhiolino e un rid della Tre sul conto corrente per pagare il Galaxy
S3 che le ha regalato. Del proprio, invece, gli rimangono duecentotrenta euro
in tasca ai jeans nuovi, un paio di scatolette di tonno nella dispensa, il
sombrero che hanno comprato sulle Ramblas di Barcellona, lo stendipanni aperto
al centro della stanza pieno di mutande e giusto quattro cocci da raccogliere
sul pavimento.
L’orologio
segna ancora le 5.45 e nessuno gli vieterebbe di starsene ancora un tot a
godersi il fresco del ventilatore, prima d’alzarsi per un altro giorno di lavoro.
E invece infila le zampe nelle infradito e le cuffie nelle orecchie e
s’affaccia al balcone per veder uscire il vicino col trattore, che ogni giorno di ogni maledetto anno di vendemmia lo incontra al panificio e lo saluta con un
vigore manco fosse in piedi da un secolo e, stamattina, pensa, stamattina
invece sarà più sveglio lui, che se è per quello ancora non s’è manco
addormentato.
E già a inizio
giornata l’umidità dell’afa della Sicilia d’agosto gli entra nel torso nudo, e
lui allora si mastica una porzione di tabacco con un pugno appoggiato sulla
guancia. La scena è uguale spiccicata alla prima volta che sono usciti e
l’aspettava sotto casa perché aveva fatto tre quarti d’ora d’anticipo, mentre s’ascoltava
a palla l’unplugged dei Nirvana. Solo che quella volta che non sapeva cosa
aspettarsi era finita aggrovigliati coi sedili della Punto tutti giù, e invece oggi
sa già che per tutto il giorno gli tocca un caldo d’inferno e il mosto che gli
colando gli s’incolla addosso mischiandosi al sudore. Ma intanto il vicino
trattorista è uscito di casa.
Che
quattr’anni son quattr’anni e lui ci pensa a ogni singola fetta biscottata che
inzuppa nel latte, che non è come lo stesso giorno dell’anno prima che a
quell’ora facevano colazione insieme nel paese deserto. L’alba era sorta da dietro
il castello, i cornetti profumavano di cioccolato vero e l’umidità era rugiada
sui vetri delle auto parcheggiate. Ma è ora di preparare la roba da mangiare e
di infilarla nello zaino. Il prosciutto cotto, c’è. Il tonno, presente. Una
merendina dolce, tiriamo dentro anche quella. E vabbè, allora cosa vuoi dirle
se mi ha lasciato, pensa, quell’altro ha un Mercedes coi fari tondi e a me invece
mi tocca vendemmiare e guarda che pranzo del cazzo.
Le sei e mezza
sono appena passate, gli altri tutti addormentati guidatore compreso, lui sul
lato passeggero, sveglio non aspetta altro che di scendere per prendere i
panini. E lo vuole lì, l’uomo del trattore, e lui farsi trovare con gli occhi
belli aperti almeno una volta nella vita. Ma invece non c’è. Stamattina non
c’è. “Otto panini”, dice alla commessa, inguardabile nel suo sguaiato grembiule
rosa, e lei comincia a ficcarli nel sacchetto e intanto “Ciao Piero!”
E allora lui
si gira e se lo trova lì consumato di discoteca, il tizio del Mercedes coi fari
tondi, un paio di Lacoste bianche ai piedi, la giacca scura sulla camicia
bianca, i capelli sfatti coi Ray Ban sopra e “ciao bellissima, due cornetti col
cioccolato, per piacere”. Lui acchiappa i panini con un gesto di trance e corre
fuori, quasi scappa, e per forza di cose se la trova appoggiata al macchinone in
un vestitino nero con le paillettes, che dello chignon ormai le è rimasta solo
una matita in mezzo ai capelli quasi sciolti.
E vorrebbe
cancellare tutto insieme, e l’accendigas e il sombrero e soprattutto quel
maledetto rid, ma come si fa se già salendo in macchina non riesce a smettere
di immaginarseli aggrovigliati coi sedili della Mercedes tutti giù. Qualcuno
gli strappa di mano i panini e la macchina riparte, proprio mentre l’uomo
appena sceso dal suo trattore, passandogli davanti, lo saluta proprio come ogni
giorno. E lui ancora non lo sa, ma questa scena della mattina alle sei e mezza
starà lì tutta la vita, a sbucare ogni tanto nella sua testa per urlargli che
della vita non ci ha capito veramente un cazzo.