novembre 21, 2012

Generatore automatico di editoriali di Eugenio Scalfari

novembre 13, 2012

Due o tre cose che so di lei


Ho ascoltato Giuseppe Tornatore, un bravo regista, dicono che si farà, al FilmFestival di Taormina nel 2008. Ci raccontò che ogni volta che vede una persona crea con l’immaginazione una storia per lei: chi è, dove va, con chi sta e perché, se avrà pagato o no il fiorino che le spetta. Bellissimo, pensavo, lo faccio sempre anch’io. E adesso ho preso lo stesso vizio partendo dai profili di Fb. Ecco qua, allora, le due o tre cose che so di lei.

Le piacciono il blu, l’arancione, la seta e il cotone,

i bastoncini di cioccolato e lo zucchero filato, gli aghi di pino e il cielo stellato.

E i capelli mossi, i gomitoli rossi, guidare sui fossi, gli alberi spogli e il rumore dei fogli,
il vento che soffia dietro le spalle e dalla cima guardare a valle.

Le vecchie foto e i fiori di loto e forse un po’ anche il passato remoto, qualche scrittore non proprio noto… ah sì! anche la N che sta per azoto.

Le farfalle più colorate, i racconti con le fate, la passata di verdure e certe notti con certe paure.

Le piacciono un botto i lampioni in cortile, i vecchi dischi di vinile, lo sbattitore per la panna montata, 
lo zucchero a velo sopra il pandoro, gli occhi bendati, la caccia al tesoro.

La frutta fresca, l’albicocca e la pesca, Bacardi Lime, Sex Crimes (ma solo il primo), Time per la copertina, gli occhioni dolci di una bambina.

Stormi di uccelli, cere e acquerelli, una fogliolina in mezzo ai capelli.

Il barbecue, “non ne voglio più!”, gli aperitivi e le festicciole, le sale ricevimenti, il sindaco Renzi, le spiagge bianche, il sombrero gigante, l’imponenza dell’elefante.

Le piace se l’acqua le bagna i piedi, trine merletti e vecchi rimedi, sotto al piumone quando fa freddo, la tv accesa se sta dormendo. Uscire di casa se c’è bel tempo, il fiordilatte, la Cinquecento, un pranzo leggero, un’occhiata distratta, un poco poco chi si arrabatta e, spero proprio, la gente un po’ matta.

novembre 07, 2012

Grazie a Dio


È come ogni venerdì pomeriggio. La solita storia del tempo che è tiranno e del fine settimana che arriva impietoso. Arriva sempre. Nel sole che batte sulle vetrate della banca niente di consolante, solo l’effetto serra di un agosto troppo caldo.

La signora intanto è seduta in sala da un’ora e mezza. Non si scompone, dieci minuti alla chiusura e lei nemmeno ci pensa a staccare gli occhi dal suo bravo giornale. La vedo di profilo, le gambe una sull’altra. Dalla testa affondata nel giornale certi ricci meravigliosi le cascano sulle spalle. Il naso sottile. Gli zigomi come due promontori sul suo bel viso, scuro ed elegante.

“E allora, ci riproviamo col bonifico?” mi chiede a voce bassa senza schiodarsi dalla sedia. Non ha un filo d’accento siculo.
“Subito signora, ma glielo dicevo, sarà difficile, ormai credo proprio che se ne parlerà lunedì”.
Si alza e mi si avvicina, chissà se si sarà accorta di quanta attenzione ci mettevo nell’osservarla. Certo però dev’esserci abituata, d’altronde è una donna veramente bella.

“Non fa niente, già che ci siamo controlliamo lo stesso”. La guardo di nuovo, così proporzionata, a dispetto dei suoi cinquantadue. Ok, ho appena dato un’occhiata all’età, dove sta il problema?
“D’accordo, signora, ricontrolliamo allora”. Parlo quasi sbuffando, perché tanto lo so che è inutile. Almeno è l’ultima fatica della settimana.

“Ecco signora, come le dicevo… ah no, è appena arrivato”. Glielo dico sorpreso, però tutto sommato nonostante la sua insistenza m’è simpatica e mi fa piacere per lei.
Così mi guarda di rimando e resta zitta un attimo. Non è mica sorpresa, semmai raggiante e fa: “Ecco, vedi, questo è stato l’arcangelo Gabriele!”

E allora di fronte al mio sgomento non può non cominciare una di quelle discussioni stucchevoli sulla religione in cui finiscono sempre per avere tutti torto. Ah ma lei non ci crede dunque, mi fa, non è per non crederci signoramia, ribatto indispettito, è che se fossi lassù con tutto il rispetto penso avrei altro da fare che occuparmi dei bonifici. Eh no, riattacca lei, tenga presente che Dio non si occupa di bonifici ma di me… e insomma si potrebbe continuare all’infinito non fosse che tutt’e due, da persone civili, a un certo punto ci fermiamo e ci sorridiamo e tanti saluti.

Lei finalmente esce col suo passo aggraziato dondolando sui tacchi e io chiudo cassa e mi avvio al mio fine settimana in solitudine fatto di musica di sottofondo e libri beat e vestiti da lavare, scettico un bel po’ circa ’sta storia che i santi risolvano anche le piccole faccende. No perché casomai ci sarebbe anche una pila di roba da stirare di là, rido tra me. Ma la questione mi frulla nella testa, che se lassù avessero davvero questi poteri, mi dico, allora perché non occuparsi di problemi importanti come le guerre e la fame nel mondo, e così pensando mi stendo blasfemo sul letto a quattro di bastoni davanti al mio libro.


La trama non è il massimo, effettivamente c’è davvero di che annoiarsi, ma io non demordo se non altro perché devo arrivarci a domenica, con questo romanzo. Se poi non collabora nemmeno il destino e dopo qualche pagina del secondo capitolo va via anche la luce, non sarà mia la colpa, giusto? Sennonché mentre mi alzo per prendere una candela la corrente elettrica torna, così, all’improvviso, come era sparita.

Epperò aspetta, aspetta un attimo, non è esattamente tutto uguale a prima. Anzi no. Per dire le cose come stanno, qua è cambiato tutto, ma proprio tutto! Non c’è più un filo della polvere che copriva ogni centimetro quadrato della stanza, scrivania armadio comodino in primis, le riviste e i giornali sono ammonticchiati e distinti per testata e il calendario è finalmente aggiornato. E poi cavolo, la pila di vestiti da stirare è sparita. Al suo posto, sopra una sedia che non c’era mai stata, svetta elegantissima una torre composta di maglioni jeans gilet e soprattutto delle camicie, che mai nella storia le mie erano state così perfettamente ripiegate.

Gli occhi strabuzzati manco avessi due abbaglianti puntati in faccia in autostrada, ma non c’è tempo neanche per sconvolgersi. Ora che mi rendo conto, non è affatto tornata la corrente e il raggio di luce al centro della stanza s’espande dall’alto come una specie di occhio di bue, pulviscolo in sospensione e insomma è un film di alieni in piena regola ma niente astronavi né alieni cogl’indici che s’illuminano telefono casa, giusto una voce squillante e giovanile che mi chiama “Ragazzo, ehi, ragazzo!”

E io mi rintano all’angolo della stanza rannicchiato sul mio letto e lui continua sempre più insistente e va avanti così finché non mi decido a rispondere piano una cosa tipo “Sì, mi dica”. E lui a quel punto mi spiazza e se ne esce con un “Ma come mi dica? Intanto dammi del tu che non sono Matusalemme, poi mi dicono che sei tu che mi cercavi oggi, e allora cos’è che volevi sapere? Ma veloce, eh, che qua mi reclamano dappertutto!”
“….”
“Oh ragazzi, ma non è che avete sbagliato persona? A quanto pare questo qua non ha niente da dirmi… siamo sicuri che è lui?” ed è parecchio affannato mentre si lamenta, come uno che va troppo di fretta e lo fermano i vigili per un posto di blocco e vuol spiegare che sì, ha commesso un’infrazione, però cazzo sta perdendo il treno e fategli pure la multa ma lasciatelo andare subito o l’avrà presa per niente.
“Ma con chi sta parlando?”
“Parlavo col mio segretario, amico mio. Comunque ti avevo detto di darmi del tu, mi pare. Angeloooo, ma non è che ci siamo sbagliati?”
Rumore di scartoffie, in lontananza un’altra voce un tantino stridula. Dev’essere Angelo, suppongo. “Ah non lo so, ci ha mandato Gabriele, parla con lui”.
“No no”, biascico lentamente, “sono io, è me che cercate”.
“Alla buon’ora! Su, allora andiamo, dai. Ci vediamo tra dieci minuti, ragazzi, ma niente ritardo che almeno stasera voglio arrivare puntuale a casa, eh! Tu non metterti a bighellonare per l’universo, Angelo, perché stavolta ti licenzio, e lo sai che quando parlo…”

Sotto il riflettore al centro della stanza si materializza allora questo giovane slavato che scapigliato e riccioloso com’è mi ricorda certe statue di Fidia. Alto da sfiorare il lampadario, un naso che divide simmetricamente gli occhi celesti, orecchie che paiono disegnate con l’ellissografo e due fossette identiche sulle guance sorridenti e insomma quando si dice “bello come un dio” non è che si vada molto lontani da questa roba qui.

“Quindi, cos’è che volevi sapere di preciso? Su veloce, hai capito o no che abbiamo dieci minuti?”, mi dice mentre sposta verso di me la sua massa di muscoli perfettamente proporzionati, polpacci e quadricipiti tonici sotto il costume hawaiano e pettorali scolpiti che spuntano dalla canottiera.
“No, è che”, balbetto, “l’immag… ehm ti pensavo diverso”.
“Vecchio e con la barba bianca, no? Dai, l’ho già sentita questa, ma secondo te potendo scegliere, ma va… Troppi quadri, troppe chiese, lo dicevo proprio stamattina ad Angelo, bisogna che facciamo un restyling, poi è successo quel casino col tostapane e ce lo siamo scordati… Ma dunque, torniamo a noi, aspetta un attimo, controlliamo qua il dossier, vediamo cosa avevano scritto i ragazzi. Ah bene, siamo alle solite, un altro che non ci crede”.
“No ma… non è che non ci credo, è che mi domandavo…”
“No dai, fermati qua che non c’è tempo per le giustificazioni e non siamo a scuola. Facciamo tutti gli intellettuali, eh? Ma poi dico io, che ne sapete voi di quant’è difficile fare questo lavoro?”
“Ma tipo Una settimana da Dio?” rispondo finalmente padrone di me stesso. Non mi sta più guardando dritto in faccia, se ne sta assorto nei fogli che si rigira in mano, com’è che l’ha chiamato, dossier?, però non si sta perdendo una parola. E infatti replica subito.
“Non sei per niente originale, ragazzo. Mi fate tutti questa battuta, che poi cos’ha di tanto straordinario quel film, che l’avete visto in così tanti? Lasciamo stare, è inutile che mi metto a fare storia del cinema ora, veniamo a noi piuttosto e vediamo di sbrigarci. Ecco, tu mi domandi com’è possibile che io non faccia niente rispetto alle maledette pesti che affliggono il mondo e io ti rispondo che se potessi fare qualcosa allora sarei io che guido, io che se voglio andare a destra vado a destra e se invece mi scappa di andare a sinistra prendo e cambio strada. Insomma, conosci il libero arbitrio? Senza, avrei inventato un giocattolino magari fantastico, ma che dopo un po’ stufa… come posso spiegartelo? Ecco, hai presente le piste Polistil e le macchinine che sembra che girino e invece fanno sempre la stessa strada? Una cosa del genere”.
“Quindi non siamo tuoi giocattolini?”
“Direi di no, non proprio”, sorride lui e mi guarda come una specie di fratello maggiore che m’avesse appena salvato da una qualche banda di teppistelli.
Rimango perplesso: “ma c’entra qualcosa la faccenda dell’amore con cui ci hai creato?”
“Davvero sentimentale, ragazzo”, cazzeggia lui nella più plastica delle pose, la gamba destra protesa avanti e una mano appoggiata sul mento. Poi smette con la recita e con questa faccia da sognatore melenso che mi prende per il culo, si rifà serio e “solo che io odio queste sdolcinatezze, e se guardo un film con Richard Gere è matematico che mi cascano le palpebre alla prima mezz’ora”.

Ora che attacca pazientemente a chiarire come stanno le cose è preciso spiccicato a Michele, mio cugino più grande di tre anni che d’estate in campagna mi raccontava di quando usciva con le ragazze la sera e io che ne avevo dieci, di anni, lo guardavo con la bava alla bocca. E mi spiega che in sostanza funziona un po’ come a Neverland secondo quel matto di Barrie, che l’isola la vedi solo se ci credi.
E che, grosso modo, se gli si chiede una mano lui fa quel che può, cioè tutto, perché è onnipotente, ma se nessuno glielo chiede, incredibilmente, non può farci nulla.

E a me mi sembra un sogno che sto parlando con Dio, tanto che tiro fuori le mani che ho tenuto tra le gambe per tutto questo tempo e mi strapazzo le guance con un pizzicotto. E in questa notte per metà assurda e per metà magica può succedere persino che sia vero che i pizzicotti svegliano dai sogni.

Infatti suona un cellulare che nel frattempo Lui, ehm, Dio ha tirato fuori da non so dove, ne deduco che forse i pantaloncini funzionano come il gonnellino di Eta Beta, ma lui lo lascia squillare per un po’ e continua a spiegarmi che “così salviamo capre e cavoli, e l’onnipotenza e il libero arbitrio, poi è chiaro che cerco di privilegiare le cose più importanti, ma credimi, è un gran casino anche in cielo, proprio come in terra, chi si raccomanda di qua e chi si raccomanda di là… Ecco, qui c’è proprio una chiamata del genere. Aspetta un secondo.”
“…”
“Ma sì, ma sì Gabriele, l’ho passato il bonifico della signora, è tutto a posto!” Mette una mano davanti al microfono. “Ma quanto rompe, questo! E insomma, dai, devo andare, ora, Angelo mi sta aspettando. Angelo! Angeloooo, ci sei?”.
“Ehi, un momento, ma… e cosa resta di questa conversazione?”
“Aspetta e vedrai. Dai Angelo, che siamo in ritardo e tra un quarto d’ora tocca essere da Claudia Koll. Ma cosa vuole ancora?”.


È buio e mi risveglio, il mio libro è accanto a me aperto a pagina 29 dove l’avevo lasciato e io sono assonnato però ho tutto in mente nitido e preciso che potrei deporre davanti a un giudice con il miglior avvocato della difesa a incalzarmi e verrebbe fuori un racconto coerente dalla prima all’ultima parola, ma intorno a me di tutta la storia non è rimasta nessuna traccia. Il disordine regna sovrano e la polvere è uguale a prima a coprire la scatola dello stereo e le casse, le riviste buttate via come capita e il calendario di nuovo al diciannove giugno.

O almeno è così finché non giro gli occhi e vedo la sedia della mia scrivania rivolta dalla mia parte, e sopra ordinatamente tutte le mie camicie, perfettamente disposte e senza più traccia di pieghe. Perché, è evidente, lo sanno bene anche lassù che l’attività casalinga più antipatica è proprio stirare, e io per questo fine settimana non devo più farlo, posso dirlo?, grazie a Dio.

novembre 05, 2012

Che cos'è la questione morale?

Il video accanto m’è sempre piaciuto un botto per questa storia che unisce uno dei pezzi più belli di Antonello Venditti e una serie di citazioni di Berlinguer che a risentirle oggi mettono certi brividi che metà bastano.


Una di queste (minuto 4.11) è estrapolata dalla celebre intervista di Eugenio Scalfari del 1981, titolo Che cos’è la questione morale?, e dice così: “i partiti hanno occupato lo stato e tutte le istituzioni a partire dal governo, gli enti locali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali”.

Non c’ero allora e non so se Berlinguer fosse davvero lo stinco di santo che oggi dipingono, ma politicamente qualcosa doveva capirci, se non altro per aver lanciato l’idea del “compromesso storico”, nella speranza, poi disattesa, di tappare la falla in cui si sarebbero infilati i socialisti con tutte le conseguenze nefaste che ne discesero e che, purtroppo, sta pagando la mia generazione.

Ebbene più di trent’anni fa questo stesso Berlinguer, di fronte a un partito che anche e soprattutto nelle sue espressioni locali cominciava a deragliare verso la corruzione, si esprimeva in maniera chiara e netta contro l’occupazione politica e partitica delle cariche pubbliche, contro quei germi che sarebbero sfociati nell’attuale crisi della classe dirigente, ormai probabilmente irreversibile.

Nel 1984 Berlinguer moriva, mentre una nuova generazione s’accingeva a subentrare alla guida del PCI, una generazione che avrebbe avuto il suo esponente di spicco in Massimo D’Alema.

Ogni volta che penso a questa cosa l’inquietudine mi avvolge, ma ancor più mi viene in mente un’altra citazione, ben più amara, da Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene”. Magari non c’entra un cazzo, ma al cuore, e ai collegamenti mentali, non si comanda.

luglio 25, 2012

La gloria dei brutti


Feci caso a Lupe e Lolo, sono tanti anni ormai, perché erano, senza alcun dubbio, quelli strani del quartiere. Ci sono bambini che sin dalla culla si distinguono dagli altri e, quel che è peggio, conoscono questa loro differenza e ne soffrono. Sono proprio questi i bimbi che finiscono per esser sempre presi in giro; che vagano come anime in pena, di gruppo in gruppo, mendicando un amico. È sufficiente che il professore li chiami alla lavagna perché il resto della classe scoppi a ridere, per quanto in realtà non ci sia in loro niente di ridicolo, a parte il loro destino di vittime e la loro mansuetudine nell’accettarlo.

Lupe e Lolo erano così: portavano una stella in fronte. Lupe era la figlia della vicina del terzo piano, una signora tettona e sferica. La bimba venne fuori rotonda sin da piccolina; aveva due gambe storte che, dal ginocchio in giù, andavano una da un lato e una dall’altro come le aste di un compasso. Non è che fosse grassa; è che era fatta male, con un corpo che sembrava un siluro e il mento che usciva fuori direttamente dallo sterno.

Ma la cosa peggiore, in tutto questo, era qualcosa dentro di lei; qualcosa di angosciante e di incompiuto. Aveva un bel viso, gli occhi verdi e i capelli neri neri, la bocca ben formata, il naso regolare. Però aveva lo sguardo ruvido, e la faccia coperta da un’espressione di perpetuo stupore. Da piccola la vedevo avvicinarsi ai gruppetti degli altri bambini: è sempre stata possente e sovrastava tutti. Però gli altri sembravano ignorare la sua presenza fuori dal comune, il suo sguardo di vetro; continuavano a giocare senza prestarle attenzione, come se non esistesse. Da principio, Lupe gli correva dietro, stupida e sgraziata, cercando di essere come gli altri; solo che, quando arrivava lei, gli altri se n’erano già andati. Con gli anni la vidi rassegnarsi alla sua non esistenza. Passava il tempo percorrendo il quartiere da sola, sempre con la stessa velocità e ripetendo le strade, con quella determinazione vuota e inutile con cui i pesci percorrono più volte i loro acquari angusti.

Quanto a Lolo, lui viveva più lontano da casa mia, in un’altra strada. Feci caso a lui perché un giorno gli altri bambini lo lasciarono legato a un palo della luce nei giardini della piazza. Era il mese d’agosto, alle tre di pomeriggio. Faceva un caldo infernale, il palo era al sole e il ferro scottava. Lo slegai, piangeva e gli colava il naso, mi offrii di accompagnarlo a casa e gli chiesi chi l’aveva ridotto così. “Non volevano”, mi rispose tra i singhiozzi, “è che si sono dimenticati di me”. E scappò correndo. Era un bimbo magrissimo, con il petto scavato e le gambe come due stuzzicadenti. Camminava ingobbito, come se di fronte gli stesse sempre soffiando un ventaccio spaventoso, ed era così fragile che sembrava che dovesse sfaldarsi da un momento all’altro. Aveva capelli rossi e tesi, naso enorme, occhi spaventati. Il viso come quello di una maschera da ballo, una faccia da barzelletta. Allora doveva essere sul punto di compiere dieci anni.

Poco dopo venni a sapere il suo nome, poiché gli altri bambini lo chiamavano tutto il tempo. Proprio come Lupe era invisibile, Lolo sembrava onnipresente: gli altri bimbi non smettevano di martirizzarlo, come se il suo aspetto da nanerottolo triste suscitasse in loro una sorta di ferocia entomologica. Di sicuro, una volta si incontrarono in piazza, Lupe e Lolo: ma non si guardarono neppure. Si respinsero l’un l’altro, come appestati.

Passarono gli anni e una sera, il primo giorno di caldo di un mese di maggio, vidi arrivare dalla strada vuota una creatura singolare: era un ragazzo scheletrico di una quindicina d’anni con una maglietta verde fosforescente. I suoi jeans, troppo corti, lasciavano scoperte le caviglie appuntite e due tibie magre; ma il peggio erano i suoi capelli, un cespuglio denso rosso e secco, pettinato con il gel, in stile anni Cinquanta, come una specie di budino immangiabile sul cranio. Non mi ci volle molto a riconoscerlo: era Lolo, sebbene un Lolo cresciuto e trasformato in un adolescente calamitoso. Continuava a camminare ingobbito, ma ora sembrava che fosse il peso dei capelli, di questa specie di portata volante che coronava la sua testa, a causare il dislivello.

E quindi vidi lei. Lupe. Arrivava dallo stesso marciapiede, in direzione contraria. Anche in lei la pubertà aveva raggiunto l’apice durante l’ultimo inverno. Le era cresciuto lo stesso seno di sua madre, di modo che, non avendo quasi collo, sembrava portare la faccia su un vassoio. Aveva tinto i suoi bei capelli scuri di un biondo violento, e se l’era tagliati corti, stile punk. Insomma, erano tutti e due francamente spaventosi: erano fioriti, secondo il loro destino, come esseri ridicoli. Però si vedeva che avevano voglia di spaccare, che erano sul piede di guerra.

Il resto, alla fine, successe inevitabilmente. Camminavano assorti e si scontrarono l’uno con l’altra. Allora si guardarono come se si vedessero per la prima volta, e si innamorarono all’istante. Successe un undici di maggio e, anche se loro magari non se lo ricorderanno, quando gli occhi di Lolo e Lupe si incontrarono tremò il mondo, i mari si agitarono, i cieli si riempirono di meteoriti ardenti. I brutti e i tristi vivono anche i loro momenti di gloria.

luglio 23, 2012

Grazie, Martina


E insomma sono lì disteso a quattro di bastoni in spiaggia con l'asciugamano bella che rivolta al sole, è una mattina di giugno ma il caldo ci sta già dando dentro, quando m'arriva 'sta chiamata da numero sconosciuto.
Io rispondo pronto e lei si presenta, Martina, con questa voce nasale e l'affanno notevole di una che, proprio in quell'istante, il mondo ce l'ha tutto sulle spalle. Mi ricorderò, Martina è certa, che l'anno scorso ho fatto le selezioni per animatore nei soggiorni di vacanza per ragazzi.
Ma sì che mi ricordo, Martina, e allora? Allora avremmo pensato a te per una partenza dalla Sicilia in Puglia, che ne diresti? M'hai preso davvero alla sprovvista, le faccio io. Ed è vero, come no, tanto che rimango lì intontito e zitto e a quel punto me la sento sospirare nel telefono, Martina, e poi d'un colpo sbuffare e attaccare con questo tono da piagnona: "E dai, non mi dire di no pure tu che stiamo messi malissimo quest'anno, cosa dico ai ragazzi, che dobbiamo rinviare la partenza?"

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Non ti offendere, Martina, ma non è che me ne fregasse qualcosa dei tuoi problemi, è solo che avevo sognato la mia estate e da sognare non c'era niente, così alla fine a dirti di sì non c'è voluto molto, giusto il tempo di ficcare il libro di Tondelli nello zainetto e partire in treno per Agrigento.
Due ore di viaggio, Martina. E poi altre dodici d'autobus fino alla Puglia che mi sembrava di non arrivare più. Ma era solo perché non sapevo cosa m'aspettasse al ritorno, che con lo sciopero dei traghetti a Messina ce n'abbiamo messe venti, di ore, e ho perso l'ultimo treno per arrivare a casa e adesso per il prossimo tocca aspettare l'alba in questa piazza rotonda di Agrigento.
Eppure, Martina, con queste due settimane m'hai proprio svoltato l'estate. E le serate coi maschi vestiti da femmine e viceversa, e in autobus tutti a sgolarci con le lagne di Tizianoferro, e il torneo a beach soccer sulla spiaggia che i miei l'hanno vinto all'ultimo minuto e avresti dovuto vederlo quando mi sono saltati addosso per festeggiare, che mi s'è spaccato un labbro e m'han dovuto dare tre punti.
E poi quell'altra volta che siamo finiti a parlare di musica e quelle due mocciosette m'han dato una lezione che me la ricorderò. Ah, Martina, e che figata vederle nascere, quelle storie d'amore che a tredici anni non è più il tempo delle mele e ne sapevano più di me, e allora passare la notte nei corridoi per evitare che s'accoppiassero, che l'ultima mattina son stati dolcissimi e m'han portato anche il caffè.
No, tutto bellissimo, Martina, ti chiamavo a quest'ora di sera solo per domandarti se posso tenerla una delle magliette che m'avete dato come divisa. Anche perché sai, Martina, sarebbe inutilizzabile ormai che l'ho tutta riempita con le dediche dei miei ragazzi.

luglio 21, 2012

Mi avevi già convinto a "ciao"

Dice, il libro che t’ha cambiato la vita. Quello che ha preso il bozzolo di una persona curiosa e l’ha trasformato nel baco da seta di un lettore fervente, e di solito è un gran romanzo di quelli travolgenti, magari con dentro una storia d’amore tormentata. Oppure anche no, però insomma, che sia almeno una pietra miliare della letteratura!


Così per me ricordo Siddharta o Il Maestro e Margherita o Opinioni di un clown, citando solo i primi che mi saltano in testa ché le raccolte di figurine non m’han mai confinferato. Però se devo citare quel momento lì, dai, quel momento in cui la crisalide… tac! d’improvviso è diventata farfalla, beh, su di me non è merito delle centomila facce di Pirandello né dei ragionamenti complessi eppure chiarissimi di Sciascia, delle pagine d’amore lacrimevoli di García Márquez né degli eroi dimenticati o del killer sentimentale di Sepúlveda, dei manager rampanti di Tom Wolfe annichiliti dal proprio ego né del vecchio pescatore di Ernest Hemingway.

Mi piacerebbe che fosse così, davvero, farebbe un grande effetto ogni volta che lo ricorderei, però si sa che il primo grande amore è sempre per qualcuno che magari non vale nulla ma che l’adolescente brufoloso è lì ad idolatrare chissà perché. E insomma, a farla breve, quando il lettore in me ha preso il volo non c’era una pagina scritta davanti, ma un piccolo schermo che proiettava… Jerry Maguire.

Manco ‘sto gran film, lo capisco, tra Tom Cruise che fa il compitino, Renée Zellweger che non è ancora Bridget Jones e soprattutto Cuba Gooding Jr. e quel balletto “Coprimi di soldi!” da impazzire. Ma quindi cosa ci avrà visto lo sfigato del liceo di allora in quella roba lì? Boh, direi proprio... tutto.

Questo tizio che parte avvantaggiato, è al top ma a un certo punto vincere facile non gli basta più, vuole anche una coscienza e poi però tornare in alto, stavolta alle sue condizioni. Insomma, sia all’inizio che alla fine del film Cruise/Maguire è bene o male un tipo figo e famoso e un procuratore sportivo di successo, dunque ciò che differisce non sta fuori, ma dentro di lui, in quel percorso lungo e tortuoso che l’ha cambiato del tutto.

E a un adolescente che un po’ sospettava che tutti quei comunistelli nel cortile del liceo seguissero solo la gran moda dei diciottanni e che lo facessero pure coscientemente, beh, a uno così come faceva a non piacergli una storia del genere?

Voglio dire, un tizio che sì, rifiuta la mentalità del successo a ogni costo, manda tutti a fanculo e finisce per toccare il fondo eppure non si mette a disperarsi né a lamentarsi, no, non comincia la solita lagna che si può esser grandi e nel proprio piccolo e chi s’accontenta gode e Renée è così bella e il bimbo tanto simpatico che se anche mi mettessi a fare il farmacista sarei felice lo stesso.

Jerry Maguire non si ferma, lavora su di sé senza mollare finché non torna lì, nell’olimpo dei procuratori sportivi con questo giocatore che ha letteralmente tirato fuori dalla barzelletta. E dieci anni fa questo dovette essermi sembrato uno di quei messaggi che ti cambiano la vita, una specie di mantra che recita “Impegnati e sarai premiato” anche se rifiutassi le regole del cazzo che guidano la faccenda.

E magari t’aspetta pure una Bridget Jones che dal suo carico di delusioni ha persino la forza di incoraggiarti al ristorante “Non raccontiamoci le nostre storie tristi”, una che quando la guardi ha sempre quella faccia sorpresa e grata di tanta attenzione, che ogni volta pare la prima e che forse ha pure un vestito nero che te lo ricorderai per un bel po’.

Vabbé ok, poi è chiaro che se appena appena ti guardi attorno in quest’italietta dove la meritocrazia è un miraggio ti viene da prendere Maguire e sbatterlo contro un muro e dirgli “Ehi amico, e qui come cazzo ne usciamo?” e mollarlo lì come un ebete e giù i titoli di coda. Però lo sai che a un certo punto riapparirebbe nel salotto di casa tua e ti travolgerebbe di parole e, ancora dieci anni dopo, non potresti che rispondere “Mi avevi già convinto a ciao!”.

luglio 11, 2012

Qualcuno ci aiuti


Ogni anno la stessa storia della RAI che a estate inoltrata appiccica in basso a sinistra sullo schermo un bel titolo nuovo e ogni sera ci propone l’unico materiale decente che ormai può permettersi: i suoi filmati d’archivio.

Da sadico inguaribile, non posso che invidiarne gli autori, ché li pagano per rigirare il coltello nella piaga di un pubblico ormai disperato, in balia di questi tempi di miseria e di Veline, di vacche magre e di Otto e mezzo.

La puntata che ho visto mostrava sì tanta roba francamente invedibile pure per il nostalgico patentato che sono, una marea di spezzoni dell’andato Quartetto Cetra intervallati da monologhi che declinano Roma nelle sue varie sfaccettature. In mezzo ci becchi anche Guzzanti e Brignano, non proprio due novellini e anzi tra i comici meno peggio di un panorama tv italiano irrimediabilmente disastrato (a differenza di un web molto attivo in tal senso).

Eppure, fermo restando il talento smisurato del primo e la scuola Proietti del secondo che li collocano tra i pochi ancora capaci di far ridere qualcuno, era impossibile non notare uno scarto enorme fra le trasmissioni più vecchie e quelle più recenti, diciamo dagli anni Novanta in giù, scarto che va chiaramente a favore delle prime.

Stralci non proprio memorabili, ripeto, il Quartetto Cetra in tutte le salse canticchia ritornelli nati già vecchi (qualcosa come “pizza mare sole e nonzocché”) e dà il suo peggio in attualizzazioni improbabili di classici letterari, spingendosi fino al culmine del ridicolo quando compaiono Al Bano e Romina vestiti da Renzo e Lucia.

Epperò, a non farsi distrarre dalla corona di stelle della prima moglie del Carrisi, cui seguirà comunque la Lecciso e questo vorrà pur dire qualcosa, c’è un aspetto che non si può non notare.
La scrittura.

Ebbene sì, ancora una volta il segreto è tutto lì. Vuoi che, come spesso si dice, ci fosse una settimana di tempo per preparare un’ora di spettacolo, vuoi che, citando il compianto Monicelli, gli autori d’allora erano persone dotate di cultura vasta e davvero generale, fatti sta che a rivedere tutti i vecchi programmi è impossibile non accorgersi dell’elevata qualità della scrittura.

Avete mai visto, anche per errore, pezzi di Canzonissima, Teatro 10, Scala Reale e via discorrendo? Chi è sul palco parla sempre un italiano impeccabile e, soprattutto, costruisce pensieri articolati e pertinenti e insomma si ha sempre l’impressione di seguire, come usa dire di questi tempi, il filo logico di una “narrazione”. L’esatto opposto della tv d’oggi, scritta coi piedi e interpretata peggio, totalmente affidata all’estro di chi va in scena, peraltro scarso in un buon 80% dei casi.

E mentre su queste stupidaggini, stupidamente, rifletto, Teche Teche Te’ finisce e lascia spazio a Porta a porta. Appunto. Rinvengo che stanno inquadrando Formigoni e non mi rimane che cambiare canale.

Approdo a Rai Storia dove parlano di Cavour, accompagnandosi con immagini per lo più tratte da uno sceneggiato sulla sua vita del ’67. Oggi, ad andar bene, tocca veder scempiare la figura del grande Borsellino. Qualcuno ci aiuti.

luglio 09, 2012

Cruciverba (per solutori abili)


A volte si prova a sfidare i propri miti, uno dei miei si chiama Bartezzaghi e scrive cruciverba per La Settimana Enigmistica. Allora ne ho preparato uno che, come i suoi, è “destinato ai solutori più abili” e ve lo propongo, sfidandovi a risolverlo: vediamo se qualcuno tra i miei lettori riuscirà a rimandarmelo completo.

Istruzioni (semplici) per l’uso: aperto il link sottostante, premete download e scaricherete il file excel con lo schema. Passando con il mouse sopra le caselle, potrete leggere le definizioni.

luglio 07, 2012

I migliori di via Mazzini


Alle undici d’un martedì della fine di aprile giù in cortile l’estate è un’ipotesi concreta che prende forma nei gelsomini fioriti e nell’asciugarsi della pozzanghera al centro, ormai eterna. Il bastardino Flicky aveva avuto modo di notarlo nel pomeriggio quando Antonio l’aveva portato a far pipì, e perciò adesso se ne sta tranquillo nel suo angolino. Il suo muso inequivocabilmente triste fissa i quattro che si rincoglioniscono davanti a un telefilm qualsiasi, ignari della primavera che fuori torna a pulsare di vita.

Collegata al piano di sotto da una scala interna, la mansarda è alta abbastanza da poterci stare anche in piedi. Certo, Giampiero e i suoi due metri e tre di stazza non c’entrano comunque. Ma tanto, anche quando non stanno mangiando stretti intorno al tavolino al centro della stanza, i ragazzi finiscono sempre per stare tutti seduti sui due divani vecchi e comodissimi, a guardare il megatv di Antonio fumando qualche canna che il tempo intanto passa.

Attribuirsi come nome ”I migliori di via Mazzini” rivela quantomeno una bella dose di autoironia a chi conosce la toponomastica (via Mazzini è una stradina laterale con un unico palazzo). Stasera il gruppo non è ancora al completo, ma chi deve ancora arrivare sta già suonando il campanello e così Antonio si alza per aprire, mentre le orecchie di Flicky si drizzano come antenne.

“E falla girare, cazzo”, sbotta Mirko. Una smorfia tradisce Caterina, accennando di stupore e di delusione nei suoi occhi neri neri. Non si sarebbe mai abituata. E dire che in mezzo agli uomini c’è cresciuta, che per imparare l’inglese ha vissuto da sola a Londra con due ragazzi, con gli annessi e connessi di amici che arrivavano a ogni ora del giorno e della notte e allora adesso sa di bagni con le porte aperte e conversazioni da osteria, briscole in cinque e gare di rutti e pasta aglio oglio e peperoncino alle quattro di mattina quasi sbronzi.

Però no, non s’abituerà mai a quel fratello così diverso quando lo vede in mezzo ai suoi amici, ai loro amici, deciso e trascinante come a casa nemmeno sognerebbe, lui che continua a tenere la testa sul piatto se mamma a tavola lo rimprovera. Non s’abituerà mai e magari la colpa è di quei capelli biondi, si ritrova a pensare ogni tanto, che non li ha tagliati e ancora oggi gli scendono sulle spalle, ma forse c’entrerà pure l’espressione angelica che gli album di famiglia raccontano con foto in bianco e nero, perché così piacevano al loro papà. Chissà che direbbe oggi se potesse vedere Mirko nella sua camicia di felpa trasandata e con la barba di un marinaio in solitaria nell’oceano.

“E così l’hai mollato finalmente”, la voce di Monica arriva squillante dal corridoio e sveglia lei e l’intera casa da un torpore avvolgente e persino piacevole. L’altro assente, si capisce, non arriverà.
E Caterina allora respira un attimo sulla sedia, scavalla le sue gambe bellissime avvolte in un paio di jeans neri e tac, all’improvviso tira fuori gli artigli che nasconde benissimo da qualche parte dietro il suo nasino, il cappello le vola dalla testa e lei spara “E tu farti i cazzi tuoi invece?”
Giampiero s’è alzato in piedi a prendersi un bicchiere d’acqua e se ne sta accanto al frigorifero con la testa piegata per non sbatterla al solaio. “Dai, ma ti pare il caso?”, risponde, ricordandoci la verità scientifica ormai riconosciuta che l’omone in una comitiva di ragazzi sia anche il tipo più pacifico.

“Zitto tu che stiamo parlando, Gargamella”. Zitto tu che stiamo parlando. A occhio e croce, il settantacinque per cento delle conversazioni tra Monica e Giampiero consistevano in quest’unica frase che lei, Monica la vamp, rivolge a lui, Gargamella in un branco di Puffi a cui l’originale ha però tolto tutta la cattiveria.
Monica insiste senza pietà. “E insomma, come mai i piccioncini si sono lasciati?”
“Ehi Mirko, non è tutto tuo il fumo! Per pagare abbiamo diviso o sono io che ricordo male?” Dev’essere davvero un evento se Antonio prende la parola. I suoi amici lo chiamano “Unlitrodivino!”, proprio così, tutto unito e tutto d’un fiato, perché è capace di tacere per ore, ma se durante una cena al ristorante interviene puoi star certo che è ora di chiedere da bere.

Mirko è gesti misurati di attore consumato. Non è tanto il fatto che sia così dannatamente affascinante, è che purtroppo per gli altri lo sa anche lui. Si china, raccoglie il cappello e lo passa alla sorella, poi lentamente esclama un “Tutta tua!” a voce bassa con un tono gelido che mortificherebbe chiunque.
Non Antonio. Certo, a dirla tutta c’e forse qualcos’altro in quell’intervento che interrompeva un terzo grado, ma chi lo confesserebbe mai? Certo non lui, tanto geloso nel custodire i suoi pensieri. Raccoglie la canna senza guardarlo, si volta e ne respira avidamente. Questa è davvero un’altra storia.

Monica intanto non s’impiccia più ma nella sua faccia aggressiva lo vedi che non demorde, che vorrebbe sapere per filo e per segno di Caterina e di Raffaele che sembrano la coppia più bella del mondo di Celentano, e lei non riesce a spiegarsi una tutto sommato avvenente come Kate come faccia a stare con uno sfigato del genere, capace di studiare sedici ore al giorno, NERD del cazzo dagli occhiali a fondo di bottiglia e la peluria sul collo. Sta pensando proprio una cosa del genere, Monicuccia bella, quando si sente schioccare dietro. “Ma non ti stanchi mai di questa cretinata?” civetta voltandosi mentre ride sguaiata.
Ma Mirko è fatto così. Lui non chiede, pretende. Per chiamare a sé la sua ragazza (“trombamica”, aveva precisato a sua sorella, “solo trombamica”) basta che le tiri il filo del tanga da sopra i jeans e lei arriverà, “puoi star certo che arriverà, Giampiero, perché le femmine sono tutti uguali”.

Mirko e Caterina. Mirko e Caterina che sono fratelli e sono così diversi. Che si vogliono bene e che camminano a fianco, ma come rette parallele. Lui ha un aspetto così sicuro da non aver ancora capito che cazzo vuol fare nella vita e studia giurisprudenza solo perché è la facoltà più vicina a casa sua, lei con un viso così dolce sembra voler scoppiare a piangere da un momento all’altro, lei che a venticinque anni s’è appena laureata in medicina e sta pensando di mollare la specialistica e volarsene in Tanzania per Médecins Sans Frontières.

E questo è anche tutto ciò che Monica non sa. Non lo sa perché per fortuna stanotte Mirko non l’aveva portata a dormire a casa sua, e allora non l’ha sentita piangere raccontando a sua madre che lei e Raf, dopo dieci anni, si sono lasciati. “Non lo so se lasciati per sempre, mamma, questo non lo so. Però io devo decidere cosa fare, e non lo so se voglio restare qua tutta la vita e fare il medico solo perché l’hanno fatto prima il nonno e poi papà, e diventare primario in un ospedale e fare un sacco di soldi e averci un paio di figli che faranno la stessa cosa. E mi dispiace un sacco per Raf perché immagino come l’avrà presa, però io ho bisogno di pensarci con calma”.

E Mirko invece sì, c’era e l’ha sentita dal suo dormiveglia e quando in cucina si sono spente le luci è rimasto sveglio. E ha pensato a quanto faccia schifo questa faccenda, che sua sorella non possa stare con Raffaele e loro si vogliono bene davvero, e invece lui forse Monica avrebbe finito per sposarsela, magari tra una decina d’anni e perché nessuno dei due avrebbe trovato di meglio e a un certo punto passare la serata ad annoiarsi insieme davanti a un technicolor sarebbe sembrata la cosa più di buon senso da fare.

All’una, come una serata qualsiasi, Caterina si alzerà dal divano e se ne andrà, e mentre tornerà a casa sullo scooter penserà intensamente anche lei a tutta la storia, non farà altro che pensarci, cristo, e se dietro di sé andrà lasciando qualche lacrima farà sempre in tempo a dare la colpa al freddo.
Anche Mirko, vedendola alzarsi, ci penserà con la sua brava canna in mano mentre sullo schermo piove sull’impermeabile del protagonista, fingendo di non accorgersi di Monica che lo fissa, e in maniera piuttosto esplicita, sotto lo sguardo severo di Flicky. Non ne ha voglia e d’altronde non è proprio il caso, stasera. Del resto hanno tutta la vita davanti, e si preannuncia piuttosto lunga.

giugno 20, 2012

Sugli esami di maturità


Porcatroia già diec’anni dalla maturità, stamattina m’ha preso un brivido quando aprendo l’homepage de lastampa.it m’è venuto in mente sto dettaglio. E lo so che è banale forte scriverci sopra un post “i miei esami”, però ne ho letti tanti di ricordo in occasione dell’anniversario dalla morte di Falcone del genere “ricordo che mentre bevevo una tazza di latte in cucina arrivò la notizia dell’attentato”.

Il 2002 erano i Mondiali in Asia e sta Corea che c’aveva appena buttato fuori, un caldo boia e la mia AX senz’aria condizionata sulla statale per Alcamo. E di tensione neanche a parlarne, almeno i giorni delle prove scritte, anzi un senso di sollievo che con la matematica si smetteva per sempre (quanto me ne sarei pentito, poi!).

Era la nostra prima squadra di calcetto in un torneo contro i grandi, e io che, per quello sì, non ci dormivo la notte, a pensare che si potesse fare brutta figura, e invece poi arrivammo secondi nel girone e a cacciarci dal campionato furono solo i rigori, ai quarti.

E poi andarsene al mare il pomeriggio del quizzone, strappare un foglietto dal bignami per il compito di matematica, scrivere il foglio di presentazione alla tesina per gli orali con il font de I Simpson, gli insegnanti di italiano e matematica che litigano alla presentazione dei temi, il presidente che forse è un ologramma perché non lo vediamo mai.

Della mia prima prova ricordo che ho affrontato l’argomento storico, ho composto una boiata anticlericale parlando di Giovanni XXIII e al mio prof fece veramente schifo e io non so che darei per rileggerlo adesso e capire che sarà mai venuto fuori dallo studente presuntuoso e ignorante di allora.

E oggi, invece, sono qua a lavorare mentre una caterva di ragazzi, un’altra, salta la barricata dall’adolescenza all’età adulta. E io vorrei riprendere Nizan, come ha scelto il Ministero, e allora va bene, non permettete a nessuno “di dire che questa è la più bella età” della vostra vita, ma sappiate che di sicuro è quella in cui c’è più tempo per godersela.

giugno 15, 2012

Una serata qualunque


Che quando si dice degli uffici grigi, e bigi, e invece a Catania nel cortile CGIL l’edera va rampicando sui muri più alti e a metà giugno è tutto un trionfo di foglie verdi e fiori ciclamino dentro uno spiazzo bellissimo, sicché ci organizzano esposizioni e convegni e serate come quelle di ieri. Una serata afro.

A entrare si notano subito questi drappi di cerata che dall’alto piombano giù coi loro colori vivaci, fantasie variopinte di terre lontane. C’è il pieno di gente, qualcuno se ne sta seduto a sbevacchiare ai tavolini sulla destra, proprio accanto a un cocktail bar improvvisato all’aperto con tutte i suoi liquori dalle etichette colorate in bella mostra.

Da quest’altra parte, proprio accanto all’ingresso, una scrivania è il podere di una matrona con un frigorifero portatile verdognolo, di quelli che le famiglie palermitane ci si portano al mare l’intero pranzo. Dentro ci sono una caterva di bottiglie d’acqua minerale riempite di nonsocché, due robe diverse che potrebbero essere rispettivamente vino rosso e aranciata. Ma chiaramente non lo sono.

Poco più avanti, il solito banchetto di oggetti curiosi che a vederli così uno vicino all’altro ti vien sempre voglia di comprarli tutti ma che poi, quella rara volta che ti decidi a farlo, a casa non ci trovi proprio una funzione né una postazione che sia capace di farli sembrare di nuovo così attraenti.

Di fronte, una pedana in legno fa da palco per un complesso di senegalesi in cui il cantante che ha questa voce un po’ rauca, e dietro un tambureggiare continuo e poi questo strumento che non ho mai visto che si chiama proprio “chitarra senegalese”, e infine una ragazza che deve saperla lunga è l’unica bianca del gruppo e strimpella una specie di xilofono.

L’amico Moussa mi spiega che il contenuto delle misteriose bottiglie è in un caso ginger, che è afrodisiaco e “se te lo bevi stanotte non dormi” (povero me), nell’altro fiori di ibiscus ed è proprio quello per cui opto, un sapore dolciastro che alla lunga stufa ma che avrà pure lui una sua ragione.

L’ibiscus deve evidentemente avere questo potere magico di sciogliere le membra e piano piano convincerti per forza a seguire il ritmo bongheggiante a cui già si stanno dimenando tutti, in un tripudio di mani che ondeggiano e di anche snodabili che paiono staccarsi dal corpo in cui stanno.

Insomma è un seratone in cui tutti s’affratellano nel ballo, treccine svolazzanti e chignon di ricci, tuniche multicolor e amazzoni nere avvenenti da spavento, e l’erotismo nell’aria si taglia a fette e le ragazze sono tutte un feromone mentre un ballerino dà il meglio di sé giocando a spogliarsi di quel che ha addosso.

Non lo so, ma a me pare una di quelle cose che servono più di tante chiacchiere barbose sul multiculturalismo di cui mi ricordo all’università, perché alla fine non c’è niente di più rivelatore del banale scoprire che tutti finiscono per divertirsi nello stesso modo facendo un po’ di rumore e ballandoci su.

giugno 07, 2012

Tutto perfetto (Senza errori non si ha mai felicità)

Sparito per andarsene a Londra, ma ti rendi conto? E tutti come le bestie impazzivamo per cercarlo! Io ancora mi ricordo, amore, di quando l’abbiamo conosciuto. Era una festa a casa di qualcuno e Antonio era vestito da hawaiana, dentro quella calzamaglia nera le sue gambe lunghe lunghe parevano ancora più secche. La parte più bella però era senz’altro la gonnellina di raffia, che lo faceva sembrare un’indigena per davvero, pure con tutta la barba da comunista che si portava dietro. Che forza la nostra comitiva!


È tornato, ti dicevo, l’ho rivisto stamattina, s’era stancato, tutto il mondo è paese, proprio così m’ha detto, papale banale che tutto il mondo è paese e Londra è uguale all’Italia e allora se ne va in Mongolia a pascere pecore e chi s’è visto s’è visto. Ma un momento, perché dirtelo adesso, perdio, mentre mi dormi accanto, invece di sussurrarti all’orecchio parole d’amore qualsiasi?
I nostri vecchi sabato mattina. Dal corridoio il sole penetrava la vetrata. Smettevo di dormire e ti guardavo. Tu nuda, sulla schiena. Trentatré vertebre, il mio naso le percorreva. Una per una, da Atlante al coccige in ottanta giorni. Forse di più. “Ti fissavo, poi mi muovevo e ti svegliavo”, faceva così? Era dolce persino sentirti lamentare, del tavolino spostato se ci sbattevi un ginocchio, di un libro in cui mezza addormentata inciampavi, una penna che cadeva. Musica, anche una frase stupida. “Quanto casino lasci in questa stanza?”.


       Ma ora è tutto perfetto. In ordine, il tavolo. I libri, nell’angolo. Le penne, non cadono. La mia stanza minuscola s’è allargata parecchio, i cappotti sull’attaccapanni dietro la porta e non più sulle ante aperte del piccolo armadio, che è al centro dell’altra parete tra un ammasso di tomi e la scrivania a fare anche da appoggio per lo stereo. Dalla parte opposta, quella tv di vent’anni fa se ne sta sul suo mobiletto marrone a fissarci tremolante, noi lontanissimi su questo letto una piazza e mezza. Abbiamo razionalizzato tutto, tesoro, che bravi che siamo stati.
E ora le mie labbra, merda, si schiudono appena per dirti di Antonio, che non è manco il gran genio che si sente anzi, lo vuoi sapere?, mi sta proprio sui coglioni. E tutto questo invece di sfiorare leggère la pelle di un corpo che conosco a perfezione. Proprio come la mappa di Calatafimi. Conoscerci era organizzare quella caccia al tesoro, segnare un punto in piazza Mazzini e baciare il neo sul tuo ginocchio sinistro, con le dita percorrere corso Garibaldi e le tue vene in bella vista sull’avambraccio, sulla cartina disegnare un cerchio e sulla pancia farti il solletico.

Finalmente ho capito, piccola mia, a cosa serviva il disordine di questa stanza. Il nostro amore ci si nascondeva benissimo, dev’essere così che sopravviveva all’organizzazione precisa della vita vera là fuori. In fondo l’amore è caos, o no? La tempesta perfetta che ti sconvolge e fa pulizia dentro il tuo marcio, dicono. Adesso che abbiamo rassettato, dove potrebbe mai andare a cacciarsi, il nostro povero amore, senza farsi beccare?




La nostra storia è finita. Non da dieci minuti. Non sulle scale di casa tua. Non con te che mi urli di andare. La nostra storia è finita. Chissà quanto tempo fa. Sui gradini della chiesa, la mia prima sigaretta, la prima di una vita nuova. È ancora presto, aspetto che di fronte apra la tintoria. Pollice e indice, prendo la cicca e la caccio via. La nostra storia è finita quando ho smesso di fumare.
L’orologio della farmacia nella piazza segna esattamente le quindici e cinquanta, la signora con un chihuahua nella borsa si nasconde dietro gli occhiali scuri di Prada e in equilibrio sul suo tacco dodici semina sciccheria. Tra noi non è finita nemmeno stamattina, litigando in cucina mentre mi lanci il tuo robottino ancora acceso che roteando spara bucce di carote. È finita quando ho smesso di guardare il culo di signore come questa. Perché poi ho dimenticato com’era tondo il tuo.

Seduto qua è davvero poetico quell’angolino col suo vecchio lampione romboidale, l’asse di ferro che lo sostiene fa un sacco neorealismo, l’avvocato prova a rovinarlo passandoci sotto, schiva una pozzanghera e poi si dirige in ufficio con il Corriere della Sera sotto l’ascella destra. Non è finita neanche stanotte, amore mio, stanotte che rientrando hai trovato il biglietto firmato “Michela” nel mio cappotto e scritto sopra “Ti amo tanto”. È finita quando ho smesso di incuriosirmi della gente intorno.
Ogni dettaglio è in armonia con il quadro, pomeriggio di centro città, la sua figura arriva d’un tratto a sfasciare l’equilibrio. A passo accelerato, una borsa di pelle in una mano e un impermeabile beige da ispettore Zenigata appoggiato a metà dell’altro braccio, lo vedi correre verso la sua donna. Tanto è avulso da quell’ambiente quanto sudato, sotto le lenti rettangolari un’aria leggermente antiquata. E lei lì, piena di buste ad aspettarlo, che scoppia a ridere davanti al suo affanno. Gli asciuga le guance che colano, ci stampa sopra un bacio. La nostra storia è finita, bella mia. È finita quando abbiamo smesso di essere loro.

E giusto per tua informazione, la Michela del biglietto non è affatto una puttana. O almeno non lo so. Ben che vada sarà la ragazza del proprietario dello spolverino in cui l’hai trovato. Sono meno cinque, a momenti riapre la tintoria e mi ridanno il mio. Ma che sto a spiegartelo, ormai. È tutto perfetto, la nostra storia è finita.


maggio 30, 2012

Mani lisce come olio di ricino

Il Fascismo s’è fondato sull’ignoranza. Noi non c’eravamo. Per fortuna? Boh, però forse ci siamo persi per strada il vaccino. Non c’eravamo noi, ma chi ha letto qualche libro o ha vissuto senza pregiudizi ve lo confermerà di sicuro. Come riconoscerlo? Difficile, però per certo o non è fascista o è in malafede, perché chi è senza pregiudizi non può essere fascista. Sarà poco, sarà confuso, ma è un primo passo.

Diverso è poi quel che dice qualche nero di loro, cioè che non tutti i fascisti sono ignoranti. Verissimo, ma ciò non toglie che alla base dell’entusiasmo per l’ideologia (quale?) del Duce ci fosse, per dire, un sostanziale disprezzo per lo stato di diritto, in favore di un fai-da-te che si concretizzava nelle squadracce. E da che può conseguire un’idea del genere, se non dall’ignoranza di una classe popolare che non sa che l’abolizione dello stato di diritto consente alle lobby di fare il tempo bello e cattivo?

In queste poche righe ho spiegato da bignami perché fascismo e ignoranza vanno a braccetto, ma ci sono fascisti anche tra le persone intelligenti. Nel qual caso, si chiama malafede. Dirò ora di più, chi fonda un movimento partito gruppo di stampo fascista che funzioni, con ottime probabilità appartiene a questa categoria.

Nel caso di scuola dello stato di diritto, l’arguzia del leader carismatico consiste nel convincere l’audience che le istanze di ciascuno verranno difese con maggior fervore ed efficacia all’interno del gruppo stesso: ciò che tralascia, generando nel pubblico un’implicatura degna di Grice ed è curioso scoprire che la pagina in italiano non esiste su wiki, è che questo meccanismo si mette in moto solo in favore dei componenti il gruppo.

(Termini come “pubblico” e “audience”, quest’ultimo nel suo significato inglese, non sono usati a caso. Qual è l’aspetto più avanguardista del Fascismo? La comunicazione, naturalmente. Avete presenti quei video nazisti pietre miliari nella nostra memoria, ecco, quelli Göbbels e compari li devono ai nostri, che malgrado mezzi alla buona fecero in proporzione meglio di loro).

Torniamo a noi. Cosa c’entra un discorso del genere in questo momento storico? C’entra, a un’osservazione sulla realtà sia macro che micro.
A grandi livelli, ridondante dirlo, l’antipolitica la fa da padrona e si manifesta in dati come un’astensione enorme e in crescita, la sfiducia dei lavoratori nei sindacati e il conseguente trionfo del capitalismo versione selvaggia licenziamenti e meno diritti, di cui fa le spese, indovinate un po’ chi?, ma sì, la classe medio-bassa.

Nel quotidiano, e qui chiudo il cerchio (ci provo, santoddio, ci provo), tra le testimonianze inconfutabili c’è il disprezzo sempre meno strisciante e sempre più tangibile per la cultura. “Il fine giustifica i mezzi”, nient’altro dicono le bocche dei più fighi parolai in circolazione, non conta quanto vali, al massimo vale quanto conti.

“Munnu è e munnu ha statu”, replicheranno gli intelligenti in malafede di cui sopra. Non è vero, no che non è vero, urliamoglielo in faccia. Abbiamo avuto anni in cui perfino quest’Italia, quest’Italia sporca e malandrina e miserabile e leccapiedi l’han guidata le idee di De Gasperi che tremava mentre mandava a morire in Belgio quarantamila minatori, le parole di Calamandrei che sarebbe ora, cristo, di studiare a scuola, gli Scritti corsari di Pasolini e le Lezioni americane di Calvino e i discorsi di fine anno di Pertini.

Era un’italietta da diccì e non c’è un cazzo da rivalutare, vero, ma gli uomini di cultura erano rispettati, almeno nel senso che le loro parole venivano ascoltate. Magari poi ignorate, ma in pubblico sempre indicate a modello. Oggi se non hai niente di paraculo da dire stattene a casa, o sarai ignorato finché si può, deriso in secundis, infine se non t’arrendi linciato, parafrasando una frase che la vulgata sa attribuire al Mahatma Gandhi.

Io però ho letto qualcosa, e così mi par di ricordare che vent’anni furono lunghi, ma quando smisero di divertirsi i fascisti cominciarono a negare di esserlo mai stati mentre fuori si scatenava la caccia alle streghe. Non so se ci sarò ancora per vederlo, casomai prometto a me stesso che saprò ricordare gli sbeffeggiamenti olio di ricino, parole come randelli, uscite trionfanti pari pari a certe foto del Duce mani ai fianchi arringando la folla.

Le ricorderò tutte, giuro, ma niente caccia alle streghe. Ho letto Böll, io, premio Nobel nel ’72 (già, ma a voi che importa?), e so che sarebbe inutile.

maggio 28, 2012

Sotto il cielo di un'estate italiana


Quanti anni, trenta, trentadue, quarantacinque dalla famosa copertina del Guerino e ci ritroviamo di nuovo a parlare di calcioscommesse e di milionari, qualcuno pure in termini di euro, che vendono e comprano partite come fossero pesce al mercato ittico. Anzi no, no, chiedo scusa, quello era trenteppassa anni fa, la vecchia storia di Trinca e Cruciani che a vederli adesso, diomio, non possono che fare tenerezza.

Tenerezza di fronte a quanto è gradualmente venuto fuori negli ultimi mesi, che fra interviste dei calciatori e intercettazioni di telefonate par di leggere un libro di Dan Brown, e non solo perché di rado aggettivi e sostantivi sono accordati sensatamente. Malati del gioco, famiglie sfasciate, riunioni ultras-calciatori, minacce corporali, criminalità organizzata, non so a voi ma a me sembra di stare appresso a un giallo scritto a cazzo di cane.

A questo punto, vi avviso subito, non è che cominciamo con la storia che questi guadagnano un sacco di soldi e allora dovrebbero essere più saggi perché, si sa, il denaro è così e più ne hai e più ne vuoi e meno ne vorrai e meno ne vedrai e via così secondo i dettami di Tiziano Ferro. Il punto invece è un altro, a mio parere modestissimo: ma tutta la combriccola dei giocatori pensava veramente di parlare al telefono per mesi di queste faccende e non farsi mai beccare?

Onestamente, ma chi di noi non è cosciente che qualunque conversazione può essere intercettata, specialmente se si tratta di roba losca? È una cosa di cui non riesco proprio a darmi pace, ma com’è possibile che non venga in mente a nessuno che, ad esempio, le forze dell’ordine possano sospettare che esista un’organizzazione del genere e agire di conseguenza? Boh, sarò fesso io…

Detto questo, i provvedimenti di stamani hanno certo del clamoroso, tenendo sempre in conto di quanto è indegno che per quanto la privacy sia all’ordine del giorno nella metà dei nostri discorsi da bivacco sia ancora possibile nell’anno 2012 realizzare video del genere, con i giornalisti che vengono avvertiti dell’arresto e si fanno trovare sotto casa dell’indagato (perché è un indagato sotto custodia cautelare, mica un colpevole, ricordiamocelo. E se succedesse, giusto per dire, a uno di noi?)

E insomma, siamo qua. Diciannove arresti, più di cento persone sotto inchiesta, un possibile titolare ai Campionati Europei di calcio raggiunto da un avviso di garanzia direttamente a Coverciano. Già, gli Europei. Si parte per Polonia-Ucraina 2012 con uno scandalo alle spalle e allora che bello e giù paragoni con il Mondiale di Lippi e Calciopoli (che peraltro nel confronto sbiadisce da paura), come se anche una vittoria di quel tipo potesse cambiare lo schifo a cui assistiamo, pensare che il calcio possa essere anche, ancora, uno sport.

Non lo so, non me la sento e cerco rifugio nella storia. Andando a caso ripesco Zamora e il suo basco che ci ferma nel ’34, gli Azzurri del ’62 ad allenarsi in nave, il portiere Moro condannato a invecchiare da solo in Tunisia, la monetina del ’68 nella scaramantica Napoli, il gol di Bettega all’Argentina di Videla, Baggio che nel ’90 s’infila palla al piede tra due cecoslovacchi. Un’ultima sorpresa la Danimarca del ’92, poi furono i Mondiali negli USA, quelli dell’afa pur di far contenti gli sponsor.

Non lo so, non me la sento. Ora come ora, l’unica cosa che vale la pena ricordare sono le parole più belle e celebri pronunciate da Enzo Bearzot quando Gianni Mura gli chiese come voleva essere ricordato. “Come una persona perbene”, aveva risposto lui. C’è riuscito, ma adesso mi chiedo: una persona così avrebbe modo di allenare, oggi? E come, di grazia, in mezzo a gente che pensa ad arrotondare scommettendo sulle proprie sconfitte? Altri tempi, altri uomini. 

maggio 24, 2012

Il giorno che Nikita


Come te la immagini la Russia, ragazzo? Quando senti questo nome pensi al Caucaso e alle sue pianure o a distese di ghiaccio fin dentro le città, ai binari della Transiberiana o al regime comunista che fino a qualche anno fa popolava gli incubi delle notti dell’Occidente? A tutte queste cose insieme pensava un giorno di settembre del 1971 Nikita Chruščëv, mentre con la grafia incerta di chi ha imparato a scrivere a trent’anni tirava giù le sue memorie e aspettava di finire un’esistenza ormai senza senso.
In Europa si spegneva l’incendio del leggendario maggio di Parigi, intanto queste fotografie gettavano acqua sul fuoco dentro Nikita, masochista come chi nella miseria ricorda il tempo felice. Felice di un’infanzia umile ma operosa, di avere calcato le pianure di casa sua come pastore e di esserci poi tornato da Segretario del Partito, di aver raggiunto ciò che nella sua povertà e ignoranza di bambino non sarebbe mai stato in grado nemmeno di sognare.

E ora macerie, nient’altro che macerie, eppure me lo ricordo come se fosse oggi. Invece sono dieci anni e sembra un secolo. Quando mi passano la chiamata non riesco proprio a crederci, devo avere le traveggole eppure com’è possibile, proprio oggi che la bottiglia di vodka non l’ho nemmeno sfiorata? Oppure sì, certo, sarà lo scherzo di un compagno buontempone di qualche ufficio pubblico che non ha voglia di lavorare! Allora aveva proprio ragione quel dannato Bulgakov! Ma no, ma no, Nikita, non si permetterebbero mai, lo sanno bene che se si facessero scoprire li fucileremmo.
Squilla da mezz’ora, adesso basta, è ora di alzare quella maledetta cornetta. Nel russo stentato dall’altra parte, l’accento rivela inconfondibilmente le origini latine di chi sta parlando:
“Pronto? Qui è il segretario di stato vaticano, parla il presidente Chruščëv?”
“In persona, ditemi pure”
“Stiamo per metterla in comunicazione con il Santo Padre, che ha manifestato la volontà di trasmetterle i suoi auguri di buona Pasqua”.
Chi avrebbe mai potuto dirlo, per la maledetta steppa caucasica? Ah, se solo mio padre fosse ancora vivo vorrei proprio vederla. Già me lo immagino, a saltare così in alto sulla sedia che i pantaloni di fustagno gli si strapperebbero, e poi mi direbbe “Ne è passato di tempo da quando ammassavamo il concime in quella stalla puzzolente, Nikita!”

S’infervora Nikita, d’improvviso sembra tornargli la voglia di vivere, perché i ricordi sono la sua condanna ma anche tutto ciò a cui gli rimane da aggrapparsi, quella che sembra vanagloria è solo l’ultima cartuccia, quella a salve di chi non ne ha più da sparare. A chi l’ha conosciuto uno tra gli uomini più potenti del mondo, non potrebbe far altro che pena un Nikita Chruščëv tanto velleitario, ma se come dicono la vita prende e dà allora lui adesso è lì per dimostrarlo.

È dentro il Vaticano ormai, il papa celebra l’Angelus dalla sua finestra e Nikita, dentro, lo aspetta bellicoso.
“E insomma, quanto durerà questo discorso da due soldi? Cosa ci fa tutta quella gente in piazza ad ascoltare? Non mi toccherà certo pensare in tutta ‘sta commedia del comunismo quel Marx non aveva completamente sbagliato quando diceva “oppio dei popoli”! Certo che però ne avremmo da imparare, questo tizio vestito di bianco ci mette tutti nel sacco!
Lo vedi così inerme nella sua tunica bianca e l’espressione così mite che ti viene quasi da crederci alla storia del Crocifisso che è morto per noi, del ricco che non entrerebbe in paradiso più del cammello nella cruna di un ago, della vita di sofferenza per aspirare a un aldilà migliore… Lo vedessero tutti quanti ciò che visto io in questi due giorni, un cumulo di debosciati che si trastullano negli ozi della vita di palazzo, un raduno di banchieri e puttane che se la spassano a spese dei fedeli, un centro di potere nel quale si decide quale guerra sì e quale guerra no. Ma ci pensi, loro, che vorrebbero indicare a me la via della santità!
Eccolo, è quello lì che ha capito tutto, mentre manovra il microfono e giochicchia su quell’affare pieno di pulsanti e manopole quello non sta nemmeno ad ascoltarli, si prende il suo stipendio e se ne torna a casa, altroché!”

Su questo, in effetti, bisognerà pur dire che nel suo vaneggiare Nikita non aveva tutti i torti. Proprio quella mattina Stefano Rossi, con il suo cognome da esempi dei politici, mentre si vestiva smaltendo la sbornia della notte prima, masticava solo una gomma per l’alito e pensieri di ventisette del mese. E adesso, vedendolo tanto rilassato dinanzi al suo mixer lo avresti detto il timoniere di una nave durante la bonaccia, quasi sbracato, avrebbe osato dire, ma sempre per quanto la situazione potesse consentirlo, perché lo stipendio era l’unica cosa che dentro l’intero stato Vaticano uno come lui potesse considerare sacra.
A sentirne parlare in questi termini, potresti pensare che Stefano Rossi fosse uno di quei cinici che ti passano davanti mentre fai la fila alle Poste. Balle. Gli sarebbe piaciuto, forse, e invece. Tutte balle.
Trentaquattro anni e ancora non doveva aver imparato niente della vita vera, se quella sciacquetta era l’ennesima a essere riuscita nella non difficile impresa di fregarlo in pieno. S’era svegliato una mattina qualunque di sei mesi fa e degli occhi neri di Elisabetta non c’era più traccia, e se per questo nemmeno di quei quattro soldi che teneva a casa, giusto per non lasciare dubbi su chi aveva vinto e chi aveva perso.
Lui non lo ammetterebbe mai, ma è questo il vero motivo per cui adesso se ne sta lì con l’aria trasandata nel suo vestito grigio scuro, che prima di essere indossato da lui era stato di certo elegante, e gli occhi socchiusi e abbassati sul suo strumento di lavoro. Una dose abbondante di gel ha addomesticato i ciuffi ribelli della sua chioma scapigliata, la barba è cortissima, avrà ricordato di farla un minuto prima di uscire di casa, la camicia è bianchissima e non fa una piega quasi l’avesse appena presa in tintoria e caricata al volo in macchina. E insomma, la cura di ogni dettaglio non smette di rivelare la sciatteria dell’insieme, di uno di quelli cui non puoi rimproverare niente se non di essere loro stessi.

Nel suo deliquio di quel pomeriggio, Nikita Chruščëv confondeva con terribile sofferenza se stesso e Stefano Rossi, entrambi defraudati da una vita che restituiva loro infinitamente meno di quanto le avessero dato e, in ultima analisi, a questo danno aggiungeva la beffa del nemico, ancora oggi sorridente in un angolo di paradiso qualsiasi. Una mano di figlia ne asciugava il sudore che gli imperlava la fronte quando si svegliò, affannato con la testa appena fuori dalle coperte, stremato per lo sforzo ma finalmente sollevato.
“Ancora quella storia” sussurrò senza farsi sentire la donna al marito, “continua a sognare d’essere stato in Vaticano, Aleksej”.
“Stai tranquillo papà, va tutto bene”.
 “Grazie, Rada”, le sorrise Nikita.
Un sorriso gli affiorò sul volto, intanto che gli oggetti si sfocavano davanti ai suoi occhi.
Fu così che se ne andò Nikita Chruščëv, un pomeriggio di fine estate sognando il Vaticano che non aveva mai visto.