settembre 12, 2013

Due parole su Pier Vittorio Tondelli

C’era una volta uno scrittore che si chiamava Pier Vittorio Tondelli, disceso in terra direttamente dal dio Céline per salvare la letteratura italiana dal suo provincialismo.

Tondelli è stato adolescente nella Bologna degli anni Settanta, studente al primo DAMS di Umbertoeco insegnante e Andrea Pazienza allievo, al centro di un mondo che cambiava e andava creando, sulle macerie del piombo di quel decennio, la prima generazione postideologica.

Scrittore, musicofilo, amante dell’arte, insomma eclettico, PVT ne è diventato così il narratore più accurato. Neppure voce in terza persona, peraltro, ma vero e proprio interprete, partecipe degli eventi e dello sballo quotidiano di quegli Ottanta da cui la crisi di questi giorni deriva, ma che allora non smettevano di celebrare quel paradiso di un consumismo senza freni.

PVT cattura la ribalta giovanissimo, nel 1980 a soli venticinque anni tira fuori questo Altri libertini che non son altro che sei racconti tutti splendidi nel loro raccontare il solito, straziante disagio giovanile, e tra i quali mi permetto di segnalare Autobahn.

Il libro è una roba che spacca davvero, storie tratte soprattutto dall’ambiente omosessuale, cui Tondelli appartiene e che racconta senza complessi riserve piagnistei, e scritte con una lingua diretta, secca, infarcita di dialetti e anglicismi, idiomatismi e turpiloquio. Praticamente una bomba.

Una specie di Viaggio al termine della notte debordante di vita, una scrittura che ti viene a prendere a casa e ti schioda dalla poltrona o, con le parole dell’autore che fanno anche da incipit a L’abbandono – Racconti Dagli Anni Ottanta, “[l]a mia letteratura è emotiva, le mie storie sono emotive; l’unico spazio che ha il testo per durare è quello mozionale; se dopo due pagine il lettore non avverte il crescendo e sichiede: “Che cazzo sto a leggere?”, quello che capisce niente mica è lui, cari miei, è lo scrittore. Dopo due righe, il lettore deve essere schiavizzato, incapace di liberarsi della pagina; deve trovarsi coinvolto fino al parossismo, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. Questa è letteratura”.

Un pugno in faccia non solo, si capisce, all’ambiente letterario, ma anche alla cultura e alla società dell’epoca. E di fronte a tanta intelligenza così impudentemente sfoggiata, scatta naturalmente pure la censura.

Poco importa, il vaso di Pandora è rotto. Dai libri di Tondelli (seguiranno nel giro di qualche anno Pao Pao, romanzo breve sui dodici mesi di leva, e Rimini) vien fuori una generazione in fermento, che ha smesso di guardare il proprio ombelico e cerca fuori di sé modelli nuovi a cui guardare.

Non è più il tempo dei Brancati e dei Borgese, sembra dirci PVT, di microcosmi sociali in cui si sa tutto di tutti e l’oggetto della letteratura è lo scarto dalla norma. L’interculturalismo lancia finalmente i primi vagiti anche nello Stivale, la città di riferimento potrebbe essere Berlino, simbolo di un’Europa divisa in due blocchi ma già inconsciamente rivolta al crollo del Muro.

Con il suo stile aggressivo, oltretutto stridente con la figura mite che risulta esser stato, PVT propone dunque una via diversa per la letteratura italiana, un percorso che apra un confronto e una contaminazione con ciò che c’è fuori. Un percorso che, purtroppo, s’interrompe con la sua scomparsa prematura nel 1991, niente più che trentaseienne.

Né a lui si può imputare la colpa di non aver trovato eredi, ché il nostro si preoccupa persino di promuovere nel 1985 un’iniziativa che si chiama UNDER 25 e punta a scovare giovani talenti della scrittura. Ora, non so a voi, ma se penso all’Italia gerontocratica di oggi con questi elefanti che sulle poltrone c’invecchiano, beh, a me quest’idea pare rivoluzionaria, soprattutto calcolando che chi la sostiene è sì un autore importante, ma pur sempre un trentenne e certo non un mostro sacro.

Vabbè.


C’era una volta Pier Vittorio Tondelli, cari lettori, poi purtroppo l’AIDS se l’è portato via, come uno dei migliori figli degli anni Ottanta.

settembre 09, 2013

Il libro giusto

C’è uno scrittore, si chiama Dino Buzzati e scrisse un racconto che s’intitola Inviti superflui e solo per questo gli uomini tutti dovrebbero venerarlo. No, non proprio tutti in realtà, ma quelli che hanno amato, amano o ameranno qualcosa d’amore sconvolgente e disinteressato, e smisurato e persino controproducente, beh loro sì che dovrebbero.

Ma questo scrittore che si chiama Dino Buzzati, per non farsi mancare niente, scrisse poi un romanzo che s’intitola Il deserto dei Tartari e tutti allora dissero che era un capolavoro questa storia del tempo che passa e non passa mai e comunque lascia tutto com’è e noi stiamo sempre aspettando che invece qualcosa cambi. E conta poco, vabbè, ma anch’io lo dico che è un capolavoro, epperò lo odio, lo odio proprio alla follia il tenente Drogo, e con lui la Fortezza Bastiani e la sua dannata attesa e l’intera storia, che pure ho divorato d’un fiato su un treno per Catania.

Lo odio perché è colpa di questo capolavoro se, oggi, così poca gente conosce un altro romanzo che Dino Buzzati pubblicò venticinque anni dopo e che io non riesco a smettere di rileggere a distanza d’anni dalla prima volta (facevo ancora il liceo) e a ogni giro la pelle si accappona più del precedente, un romanzo che lui, con la stessa modestia di Inviti superflui, intitolò semplicemente Un amore.

Un amore racconta, allora, di un quasi cinquantenne, Antonio Dorigo, che prende una sbandata per la Laide, una ragazzina conosciuta in una casa d’appuntamenti, e però basta poco tempo e capisce che no, aspetta, non è una sbandata, no che non lo è. Dorigo single incallito, refrattario ai legami, noto architetto e coreografo milanese che per una donna bastano ventimila lire, Dorigo sì, della Laide s’è proprio innamorato.

Naturalmente la storia non può che andare a catafascio. La disgraziata ragazzina dalla vita ha preso solo calci in culo ed è così disgraziata, la Laide, esclusa dal mondo borghese e dalle sue “vetrine, gli ori, le ricchezze” già citati, appunto, dentro Inviti superflui, così frustrata dal non poter percorrere “le luci, la folla, gli uomini che [la] guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna” che non smette mai di ricordarglielo, al povero Dorigo.

Ed è quel che succede spesso, che lo scotto dell’infelicità d’una donna lo debba pagare il solo uomo a cui è toccata la mala sorte d’amarla, quella donna, e Dorigo ci impazzisce nel flusso interiore continuo di chi non riesce a smettere di pensare alla propria ossessione. Buzzati la rende con un monologo che spesso non abbisogna di virgolette né di punteggiatura, sconnesso e illogico com’è, mentre a me che leggo vengono i brividi temendo che l’autore m’abbia letto nel pensiero.

D’altra parte, non c’è stato alcun motivo perché s’innamorasse proprio di lei, zero cose in comune e zero possibilità che ne trovino, eppure per Dorigo è “come se qualcosa l’avesse toccato dentro… Come se ci fosse stata una predestinazione. Come quando uno, senza alcun particolare sintomo ha la sensazione di stare per ammalarsi, ma non sa di che cosa né il motivo”, o almeno così se lo spiega nel capitolo VII.

Né si tratta di questa gran bellezza, che la Laide è appena carina e deve pure mettercisi d’impegno, eppure niente, non c’è verso di liberarsene, che s’è portata via tutto e senza non val la pena neanche di vivere, per Dorigo. E lo sentiamo lo struggimento d’un uomo, lo stesso Buzzati che questa storia pare l’abbia vissuta davvero, tanto che qualcuno se lo ricorda totalmente assente, con la testa fra le mani, durante la presentazione d’un suo libro.

Non c’è rimedio, “in ogni più recondito meandro del cervello… là in fondo trovava sempre lei; che non lo guarda neppure, che non si accorge neppure di lui, che balla inverecondi balli manipolata in ogni parte del corpo dal partner sudicione e maligno, che si spoglia sotto gli occhi del ragionier Fumaroli, conosciuto un minuto prima, maledizione sempre lei, insediata selvaggiamente nel suo cervello, che dal suo cervello guarda gli altri, telefona agli altri, tresca con gli altri fa l’amore con gli altri, esce parte sempre in agitazione frenetica per una quantità di sue particolari faccende e traffici misteriosi”.

Chi lo sa, magari a quella presentazione Dino Buzzati sarà stato così sconsolato perché, proprio come in Un amore, lo sa che la sua bella lo tradisce, che dovrà sottostare ai suoi capricci per quanto fantasiosi e crudeli nei suoi confronti, gli sarà toccato di sopportare chissà quante umiliazioni e, quel che è peggio, come Dorigo avrà sorvolato su ogni cosa facendo finta di non vederla, di niente ha prove per il semplice fatto che si rifiuta di riconoscerle, esattamente come ogni persona innamorata.

L’abbiamo vissuto tutti quando abbiamo amato la nostra Laide, “quando lei parla, ogni dubbio se ne va. Tale è il genuino accento di quella ragazzina. No, è impossibile che dica delle bugie. Ci sarebbe un sia pur lievissimo tentennamento, incertezza, nota falsa, titubanza”. E noi ce ne accorgeremmo, siamo intelligenti, “di una sensibilità addirittura morbosa nel percepire le più sottili sfumature” (ricordate Barthes?)

Non so per voi, ma per me ce n’è abbastanza per spiegare certe mie storie, le mie imprese amorose e anche qualcosa di più, tipo la vita stessa. Insomma, leggetevi Un amore, imparatelo a memoria, è il libro giusto se continuate a incontrare la persona sbagliata.


P.S. Lo so che i critici recensiscono Un amore in relazione a Il deserto dei Tartari, e tutti concordi che l’amore è l’illusione di vincere la morte, ma che io come critico non valgo un cazzo non lo scopriamo oggi, se v’è piaciuta tenetevi questa e buon pro vi faccia.

settembre 05, 2013

La farfalla granata

Lui si chiama Gigi ed è un calciatore fortissimo, gioca all’ala destra e corre come un forsennato, è uno scricciolo ma fa mille finte che ci impazzisce persino il grande Facchetti, alto il doppio di lui. Sulle spalle porta il sette, e proprio come il Nino di De Gregori non pensa che un giocatore si giudichi da come tira i rigori, lui preferisce la fantasia e s’inventa certi gol che il pubblico della sua squadra, il Torino, ci va in visibilio.

Uno come Gigi Meroni, non c’è dubbio, dovrebbe stare in Nazionale, ma i giornalisti non ce lo vogliono, proprio no. Ha i capelli troppo lunghi, dicono, e poi sta con un’adultera e allora “[p]overa maglia azzurra, come ti sei ridotta!”, scrive uno di quelli che la sanno lunga. Lo accusano di non aver rispetto, lui che non salta un allenamento e non protesta mai se becca un fallo e sì che di pedate ne busca, andando sempre appresso al dribbling.

Ma sono gli anni Sessanta, e l’Italia è quella della DC bigotta e conformista e loro, i pennivendoli, possono perdonare tutto ma non la libertà di un ragazzo qualsiasi che per sconcertarli esce con una gallina al guinzaglio, ci ha i milioni e vive da bohémien, se deve tagliare barba e basette e incravattarsi come un impiegato di banca qualsiasi allora meglio rinunciare alla maglia azzurra, e poi, soprattutto, Cristiane la ama e che cazzo gliene può importare, a lui, se una volta per sbaglio aveva sposato un altro.

Dicono anche che si vesta da pagliaccio, Meroni, e invece è così pieno d’inventiva anche fuori da quel benedetto prato verde che se li disegna da solo, gli abiti, e gira con una Balilla del ’35 che ha messo a nuovo. E insomma, forse è proprio questo ragazzetto che i pennivendoli tanto disprezzano che ha fiutato l’aria nuova che arriva da lontano, l’aria dei Beatles e del Sessantotto e delle rivolte e dell’amore libero.

Che poi è un tipo tranquillo, Gigi Meroni, odia le luci della ribalta e non vede l’ora di tornare a casa la sera e chiudersi a dipingere nella sua mansarda in Piazza Vittorio a Torino, dove convive con la sua Cristiana. Già, Cristiana. Cristiana che è la “bella tra le belle”, Cristiana che non gli par vero d’averla finalmente con sé, Cristiana e una storia d’amore che persino Paolo e Francesca impallidiscono.

Cristiana è stata la ragazza del luna park e Gigi se n’è innamorato sul lungomare di Genova, dove giocava qualche anno prima, ma poi lei si sposa con un altro e lui, lui il giorno del matrimonio corre in chiesa a vederla, forse sperando che dica di no, e questi sì che sono brividi, altro che Dustin Hoffman ne Il laureato. Lei dice lo stesso di sì, ma non è una storia che può durare, quella, ché nel futuro c’è scritta un’altra cosa.

I primi tempi in cui stanno insieme lei vive a Milano e lui a Torino. Sono anni di telefonate chilometriche e corse in macchina la notte per andarla a trovare, e forse è per coprire le borse sotto gli occhi che Gigi comincia a usare quegli occhialoni da sole che fanno storcere il naso ai pennivendoli. Ma finalmente, Cristiana arriva a Torino, nella mansarda di Piazza Vittorio che ospita l’amore più profondo di tutti gli anni Sessanta.

A un certo punto Cristiana sta per avere l’annullamento e potranno sposarsi, e tutto sembra sistemarsi nell’esistenza di Gigi Meroni, che intanto a ventiquattro anni è diventato campione nel Toro e titolare in Nazionale e schiodarlo da lì sarà difficile. Ma forse il suo destino è quello di non aver requie né felicità, certo è che la sua vita si spegne una notte d’ottobre quando, a piedi in città, viene travolto da un’auto in corsa.

Finisce così il volo della “farfalla granata”, un po’ beatnik e un po’ artista, sul campo di calcio campione e nella vita uomo con la schiena diritta, e da allora Cristiana a ogni anniversario di questo giorno funesto manda sette rose rosse sulla sua tomba, sette come la sua maglia. Di sé e Gigi, oggi, parla così: “Che cosa ho voglia di dire? Che è stato bellissimo. Almeno io una volta nella vita, anche se per poco, un amore così l’ho avuto. Qualcosa di assolutamente speciale. E penso che tanta gente vive e muore senza provarlo mai”.

P.S. L’ho fatta breve (o quantomeno l’ho adattata) e si sono persi tanti episodi stupendi, perché la storia di Luigi Meroni, detto Gigi, è un romanzo vero. Nando Dalla Chiesa ha provato a raccontarla in un libro toccante che s’intitola, per l’appunto, La farfalla granata. Leggetelo.

Se invece non c’avete voglia, ne ha parlato anche Sfide. Guardate qua: http://www.youtube.com/watch?v=0Q6eKjTi8lc

settembre 03, 2013

I Miss You - Contro i concorsi di bellezza

Per cominciare, vorrei dire l’unica cosa che mi spinge a scrivere questo post: NO ai concorsi di bellezza. Di qualunque provenienza, durata, ordine o grado essi siano, no. Poi sarò anche un solone, chiaro, ma non c’è prospettiva da cui guardarli, approccio con cui porsi, senso alla loro esistenza che trascenda il mio giudizio morale di condanna profonda e totale per questa forma di spettacolo ridicola.

A dir qualcosa sull’argomento pensavo da un sacco di tempo, me ne dà l’occasione oggi il fatto di aver assistito a una di queste pagliacciate qualche sera fa. Il titolo era Indossatrice d’Italia o qualcosa di simile, lo presentavano due tizi che urlavano come ossessi, lui a quanto pare dipendente di un ufficio postale prestato alla pantomima, lei ex modella riciclatasi alla conduzione di serate.

Il circo prende inizio con una prima comparsa delle miss, che si materializzano in costumi da bagno supersuccinti e scialano noi ammirati spettatori con un’andata e ritorno dalla passerella tette e natiche al vento. Tutte con il passo deciso e lo sguardo verso l’infinito, queste ragazzine, quindici anni la più piccola e ventiquattro la più grande, che pare quasi che nella vita abbiano sempre e solo camminato di fronte a gente che la fissa con la bava alla bocca.

Ciascuna delle ragazze deve poi presentarsi, e non appena aprono bocca a me viene quasi nostalgia di quando passeggiavano. Almeno, stavano zitte. Dalle loro bocche esce un guazzabuglio di banalità imbarazzanti, ce ne fosse una che si salva. E una sogna di sfondare nel mondo della moda, l’altra vuol fare la stilista, quell’altra la fisioterapista, poi c’è quella che ama tanto il suo ragazzo che è nel pubblico e vuol proprio dirglielo. Ah, poi c’è sempre lei, che invece non ci tiene proprio a questo concorso, è qui solo per divertirsi, ci mancherebbe. E infine, assoluta primizia di questi tempi di crisi, c’è quella che non ha passato il concorso e allora le andrebbe bene anche il mondo dello spettacolo. Non ci posso fare niente, la prima cosa che mi viene in mente è quel pezzo degli Articolo 31, e capisco perché lui vuole una lurida.

[…] ‘ste tipe son tutte uguali
la mattina fanno cyclette
le gambe le radono con il Gillette
fanno diete da malato di diabete
facce lampadate con le gonne attillate

E la serata va tutta avanti così, tra sfilate e balletti più o meno dementi, senza contare le battute brillanti dei due conduttori, simpatici come le briciole sul letto, che non smettono di ricordarci quante porte si possono aprire per chi uscirà vincitrice da questa serata. Sale sul palco persino il sindaco, a ricordarci l’impegno dell’amministrazione comunale per questa manifestazione. Improvvisamente, mi sento invaso da brividi e voglia di pagare le tasse.

Cazzate a parte, non riesco a smettere di chiedermi come sia possibile, nel 2013, andare avanti con storie come questa, donne come semplici oggetti che par di stare in macelleria con la carne esposta, e i due tizi non son altro che degli imbonitori buoni a venderne il più possibile: “guardate che belle cosce ha la 15, signori!, o preferite forse il petto della 17?, proprio roba di primissima scelta, nevvero?”


Premiazione, finale, applausi per tutti. Tristezza infinita.