C’era una
volta uno scrittore che si chiamava Pier Vittorio Tondelli, disceso in terra direttamente
dal dio Céline per salvare la letteratura italiana dal suo provincialismo.
Tondelli è
stato adolescente nella Bologna degli anni Settanta, studente al primo DAMS di
Umbertoeco insegnante e Andrea Pazienza allievo, al centro di un mondo che
cambiava e andava creando, sulle macerie del piombo di quel decennio, la prima
generazione postideologica.
Scrittore,
musicofilo, amante dell’arte, insomma eclettico, PVT ne è diventato così il
narratore più accurato. Neppure voce in terza persona, peraltro, ma vero e
proprio interprete, partecipe degli eventi e dello sballo quotidiano di quegli
Ottanta da cui la crisi di questi giorni deriva, ma che allora non smettevano
di celebrare quel paradiso di un consumismo senza freni.
PVT cattura la
ribalta giovanissimo, nel 1980 a soli venticinque anni tira fuori questo Altri libertini che non son altro che
sei racconti tutti splendidi nel loro raccontare il solito, straziante disagio
giovanile, e tra i quali mi permetto di segnalare Autobahn.
Il libro è una
roba che spacca davvero, storie tratte soprattutto dall’ambiente omosessuale,
cui Tondelli appartiene e che racconta senza complessi riserve piagnistei, e
scritte con una lingua diretta, secca, infarcita di dialetti e anglicismi,
idiomatismi e turpiloquio. Praticamente una bomba.
Una specie di Viaggio al termine della notte
debordante di vita, una scrittura che ti viene a prendere a casa e ti schioda
dalla poltrona o, con le parole dell’autore che fanno anche da incipit a L’abbandono – Racconti Dagli Anni Ottanta,
“[l]a mia letteratura è emotiva, le mie storie sono emotive; l’unico spazio che
ha il testo per durare è quello mozionale; se dopo due pagine il lettore non
avverte il crescendo e sichiede: “Che cazzo sto a leggere?”, quello che capisce
niente mica è lui, cari miei, è lo scrittore. Dopo due righe, il lettore deve
essere schiavizzato, incapace di liberarsi della pagina; deve trovarsi
coinvolto fino al parossismo, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e
guaire, e provare estremo godimento. Questa è letteratura”.
Un pugno in
faccia non solo, si capisce, all’ambiente letterario, ma anche alla cultura e
alla società dell’epoca. E di fronte a tanta intelligenza così impudentemente
sfoggiata, scatta naturalmente pure la censura.
Poco importa,
il vaso di Pandora è rotto. Dai libri di Tondelli (seguiranno nel giro di
qualche anno Pao Pao, romanzo breve
sui dodici mesi di leva, e Rimini)
vien fuori una generazione in fermento, che ha smesso di guardare il proprio
ombelico e cerca fuori di sé modelli nuovi a cui guardare.
Non è più il
tempo dei Brancati e dei Borgese, sembra dirci PVT, di microcosmi sociali in
cui si sa tutto di tutti e l’oggetto della letteratura è lo scarto dalla norma.
L’interculturalismo lancia finalmente i primi vagiti anche nello Stivale, la
città di riferimento potrebbe essere Berlino, simbolo di un’Europa divisa in
due blocchi ma già inconsciamente rivolta al crollo del Muro.
Con il suo
stile aggressivo, oltretutto stridente con la figura mite che risulta esser
stato, PVT propone dunque una via diversa per la letteratura italiana, un
percorso che apra un confronto e una contaminazione con ciò che c’è fuori. Un
percorso che, purtroppo, s’interrompe con la sua scomparsa prematura nel 1991,
niente più che trentaseienne.
Né a lui si
può imputare la colpa di non aver trovato eredi, ché il nostro si preoccupa
persino di promuovere nel 1985 un’iniziativa che si chiama UNDER 25 e punta a
scovare giovani talenti della scrittura. Ora, non so a voi, ma se penso
all’Italia gerontocratica di oggi con questi elefanti che sulle poltrone
c’invecchiano, beh, a me quest’idea pare rivoluzionaria, soprattutto calcolando
che chi la sostiene è sì un autore importante, ma pur sempre un trentenne e
certo non un mostro sacro.
Vabbè.
C’era una
volta Pier Vittorio Tondelli, cari lettori, poi purtroppo l’AIDS se l’è portato
via, come uno dei migliori figli degli anni Ottanta.