Sparito per
andarsene a Londra, ma ti rendi conto? E tutti come le bestie impazzivamo per
cercarlo! Io ancora mi ricordo, amore, di quando l’abbiamo conosciuto. Era una
festa a casa di qualcuno e Antonio era vestito da hawaiana, dentro quella
calzamaglia nera le sue gambe lunghe lunghe parevano ancora più secche. La
parte più bella però era senz’altro la gonnellina di raffia, che lo faceva
sembrare un’indigena per davvero, pure con tutta la barba da comunista che si
portava dietro. Che forza la nostra comitiva!
È tornato, ti dicevo,
l’ho rivisto stamattina, s’era stancato, tutto il mondo è paese, proprio così
m’ha detto, papale banale che tutto il mondo è paese e Londra è uguale
all’Italia e allora se ne va in Mongolia a pascere pecore e chi s’è visto s’è
visto. Ma un momento, perché dirtelo adesso, perdio, mentre mi dormi accanto,
invece di sussurrarti all’orecchio parole d’amore qualsiasi?
I nostri vecchi
sabato mattina. Dal corridoio il sole penetrava la vetrata. Smettevo di dormire
e ti guardavo. Tu nuda, sulla schiena. Trentatré vertebre, il mio naso le
percorreva. Una per una, da Atlante al coccige in ottanta giorni. Forse di più.
“Ti fissavo, poi mi muovevo e ti svegliavo”, faceva così? Era dolce persino sentirti
lamentare, del tavolino spostato se ci sbattevi un ginocchio, di un libro in
cui mezza addormentata inciampavi, una penna che cadeva. Musica, anche una frase
stupida. “Quanto casino lasci in questa stanza?”.
Ma ora è tutto perfetto. In ordine, il tavolo. I libri, nell’angolo. Le penne, non cadono. La mia stanza minuscola s’è allargata parecchio, i cappotti sull’attaccapanni dietro la porta e non più sulle ante aperte del piccolo armadio, che è al centro dell’altra parete tra un ammasso di tomi e la scrivania a fare anche da appoggio per lo stereo. Dalla parte opposta, quella tv di vent’anni fa se ne sta sul suo mobiletto marrone a fissarci tremolante, noi lontanissimi su questo letto una piazza e mezza. Abbiamo razionalizzato tutto, tesoro, che bravi che siamo stati.
E ora le mie
labbra, merda, si schiudono appena per dirti di Antonio, che non è manco il gran
genio che si sente anzi, lo vuoi sapere?, mi sta proprio sui coglioni. E tutto
questo invece di sfiorare leggère la pelle di un corpo che conosco a
perfezione. Proprio come la mappa di Calatafimi. Conoscerci era organizzare quella
caccia al tesoro, segnare un punto in piazza Mazzini e baciare il neo sul tuo ginocchio
sinistro, con le dita percorrere corso Garibaldi e le tue vene in bella vista
sull’avambraccio, sulla cartina disegnare un cerchio e sulla pancia farti il
solletico.
Finalmente ho
capito, piccola mia, a cosa serviva il disordine di questa stanza. Il nostro
amore ci si nascondeva benissimo, dev’essere così che sopravviveva all’organizzazione
precisa della vita vera là fuori. In fondo l’amore è caos, o no? La tempesta
perfetta che ti sconvolge e fa pulizia dentro il tuo marcio, dicono. Adesso che
abbiamo rassettato, dove potrebbe mai andare a cacciarsi, il nostro povero
amore, senza farsi beccare?
La nostra
storia è finita. Non da dieci minuti. Non sulle scale di casa tua. Non con te
che mi urli di andare. La nostra storia è finita. Chissà quanto tempo fa. Sui
gradini della chiesa, la mia prima sigaretta, la prima di una vita nuova. È ancora
presto, aspetto che di fronte apra la tintoria. Pollice e indice, prendo la
cicca e la caccio via. La nostra storia è finita quando ho smesso di fumare.
L’orologio
della farmacia nella piazza segna esattamente le quindici e cinquanta, la
signora con un chihuahua nella borsa si nasconde dietro gli occhiali scuri di Prada
e in equilibrio sul suo tacco dodici semina sciccheria. Tra noi non è finita nemmeno
stamattina, litigando in cucina mentre mi lanci il tuo robottino ancora acceso
che roteando spara bucce di carote. È finita quando ho smesso di guardare il
culo di signore come questa. Perché poi ho dimenticato com’era tondo il tuo.
Seduto qua è davvero
poetico quell’angolino col suo vecchio lampione romboidale, l’asse di ferro che
lo sostiene fa un sacco neorealismo, l’avvocato prova a rovinarlo passandoci sotto,
schiva una pozzanghera e poi si dirige in ufficio con il Corriere della Sera
sotto l’ascella destra. Non è finita neanche stanotte, amore mio, stanotte che rientrando
hai trovato il biglietto firmato “Michela” nel mio cappotto e scritto sopra “Ti
amo tanto”. È finita quando ho smesso di incuriosirmi della gente intorno.
Ogni dettaglio
è in armonia con il quadro, pomeriggio di centro città, la sua figura arriva d’un
tratto a sfasciare l’equilibrio. A passo accelerato, una borsa di pelle in una
mano e un impermeabile beige da ispettore Zenigata appoggiato a metà dell’altro
braccio, lo vedi correre verso la sua donna. Tanto è avulso da quell’ambiente
quanto sudato, sotto le lenti rettangolari un’aria leggermente antiquata. E lei
lì, piena di buste ad aspettarlo, che scoppia a ridere davanti al suo affanno.
Gli asciuga le guance che colano, ci stampa sopra un bacio. La nostra storia è
finita, bella mia. È finita quando abbiamo smesso di essere loro.
E giusto per
tua informazione, la Michela del biglietto non è affatto una puttana. O almeno
non lo so. Ben che vada sarà la ragazza del proprietario dello spolverino in
cui l’hai trovato. Sono meno cinque, a momenti riapre la tintoria e mi ridanno
il mio. Ma che sto a spiegartelo, ormai. È tutto perfetto, la nostra storia è finita.
Nessun commento:
Posta un commento