giugno 07, 2012

Tutto perfetto (Senza errori non si ha mai felicità)

Sparito per andarsene a Londra, ma ti rendi conto? E tutti come le bestie impazzivamo per cercarlo! Io ancora mi ricordo, amore, di quando l’abbiamo conosciuto. Era una festa a casa di qualcuno e Antonio era vestito da hawaiana, dentro quella calzamaglia nera le sue gambe lunghe lunghe parevano ancora più secche. La parte più bella però era senz’altro la gonnellina di raffia, che lo faceva sembrare un’indigena per davvero, pure con tutta la barba da comunista che si portava dietro. Che forza la nostra comitiva!


È tornato, ti dicevo, l’ho rivisto stamattina, s’era stancato, tutto il mondo è paese, proprio così m’ha detto, papale banale che tutto il mondo è paese e Londra è uguale all’Italia e allora se ne va in Mongolia a pascere pecore e chi s’è visto s’è visto. Ma un momento, perché dirtelo adesso, perdio, mentre mi dormi accanto, invece di sussurrarti all’orecchio parole d’amore qualsiasi?
I nostri vecchi sabato mattina. Dal corridoio il sole penetrava la vetrata. Smettevo di dormire e ti guardavo. Tu nuda, sulla schiena. Trentatré vertebre, il mio naso le percorreva. Una per una, da Atlante al coccige in ottanta giorni. Forse di più. “Ti fissavo, poi mi muovevo e ti svegliavo”, faceva così? Era dolce persino sentirti lamentare, del tavolino spostato se ci sbattevi un ginocchio, di un libro in cui mezza addormentata inciampavi, una penna che cadeva. Musica, anche una frase stupida. “Quanto casino lasci in questa stanza?”.


       Ma ora è tutto perfetto. In ordine, il tavolo. I libri, nell’angolo. Le penne, non cadono. La mia stanza minuscola s’è allargata parecchio, i cappotti sull’attaccapanni dietro la porta e non più sulle ante aperte del piccolo armadio, che è al centro dell’altra parete tra un ammasso di tomi e la scrivania a fare anche da appoggio per lo stereo. Dalla parte opposta, quella tv di vent’anni fa se ne sta sul suo mobiletto marrone a fissarci tremolante, noi lontanissimi su questo letto una piazza e mezza. Abbiamo razionalizzato tutto, tesoro, che bravi che siamo stati.
E ora le mie labbra, merda, si schiudono appena per dirti di Antonio, che non è manco il gran genio che si sente anzi, lo vuoi sapere?, mi sta proprio sui coglioni. E tutto questo invece di sfiorare leggère la pelle di un corpo che conosco a perfezione. Proprio come la mappa di Calatafimi. Conoscerci era organizzare quella caccia al tesoro, segnare un punto in piazza Mazzini e baciare il neo sul tuo ginocchio sinistro, con le dita percorrere corso Garibaldi e le tue vene in bella vista sull’avambraccio, sulla cartina disegnare un cerchio e sulla pancia farti il solletico.

Finalmente ho capito, piccola mia, a cosa serviva il disordine di questa stanza. Il nostro amore ci si nascondeva benissimo, dev’essere così che sopravviveva all’organizzazione precisa della vita vera là fuori. In fondo l’amore è caos, o no? La tempesta perfetta che ti sconvolge e fa pulizia dentro il tuo marcio, dicono. Adesso che abbiamo rassettato, dove potrebbe mai andare a cacciarsi, il nostro povero amore, senza farsi beccare?




La nostra storia è finita. Non da dieci minuti. Non sulle scale di casa tua. Non con te che mi urli di andare. La nostra storia è finita. Chissà quanto tempo fa. Sui gradini della chiesa, la mia prima sigaretta, la prima di una vita nuova. È ancora presto, aspetto che di fronte apra la tintoria. Pollice e indice, prendo la cicca e la caccio via. La nostra storia è finita quando ho smesso di fumare.
L’orologio della farmacia nella piazza segna esattamente le quindici e cinquanta, la signora con un chihuahua nella borsa si nasconde dietro gli occhiali scuri di Prada e in equilibrio sul suo tacco dodici semina sciccheria. Tra noi non è finita nemmeno stamattina, litigando in cucina mentre mi lanci il tuo robottino ancora acceso che roteando spara bucce di carote. È finita quando ho smesso di guardare il culo di signore come questa. Perché poi ho dimenticato com’era tondo il tuo.

Seduto qua è davvero poetico quell’angolino col suo vecchio lampione romboidale, l’asse di ferro che lo sostiene fa un sacco neorealismo, l’avvocato prova a rovinarlo passandoci sotto, schiva una pozzanghera e poi si dirige in ufficio con il Corriere della Sera sotto l’ascella destra. Non è finita neanche stanotte, amore mio, stanotte che rientrando hai trovato il biglietto firmato “Michela” nel mio cappotto e scritto sopra “Ti amo tanto”. È finita quando ho smesso di incuriosirmi della gente intorno.
Ogni dettaglio è in armonia con il quadro, pomeriggio di centro città, la sua figura arriva d’un tratto a sfasciare l’equilibrio. A passo accelerato, una borsa di pelle in una mano e un impermeabile beige da ispettore Zenigata appoggiato a metà dell’altro braccio, lo vedi correre verso la sua donna. Tanto è avulso da quell’ambiente quanto sudato, sotto le lenti rettangolari un’aria leggermente antiquata. E lei lì, piena di buste ad aspettarlo, che scoppia a ridere davanti al suo affanno. Gli asciuga le guance che colano, ci stampa sopra un bacio. La nostra storia è finita, bella mia. È finita quando abbiamo smesso di essere loro.

E giusto per tua informazione, la Michela del biglietto non è affatto una puttana. O almeno non lo so. Ben che vada sarà la ragazza del proprietario dello spolverino in cui l’hai trovato. Sono meno cinque, a momenti riapre la tintoria e mi ridanno il mio. Ma che sto a spiegartelo, ormai. È tutto perfetto, la nostra storia è finita.


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