aprile 21, 2014

Piccolo prontuario per l'attesa

Appoggiata a un paletto di quelli che impediscono alle automobili di accedere ai vicoli, la ragazza aspetta qualcuno. I ricci che le strabordano dal berretto di lana, gli auricolari fucsia nelle orecchie, le scarpe da ginnastica sopra i jeans strappati all'altezza del ginocchio. Nessun segno di nervosismo particolare, solo ogni tanto si guarda attorno, si gira a destra e poi a sinistra mentre le macchine le sfrecciano davanti, le mani in tasca per proteggerle dal freddo secco o perché, più probabilmente, così può sentire vibrare lo smartphone.

Non è difficile riconoscere qualcuno che aspetta. Ma se c’è un gioco che trovo molto divertente, è capire cosa stia aspettando. D'altra parte ce ne sono a decine, di attese.

Ci sono attese, un po’ leopardianamente, foriere di felicità più che la felicità stessa. Attese che, ad esempio, promettono baci contro i muri e i tronchi degli alberi e bisbigli di desiderio e poi d’appagamento e, insomma, d’amore. Ma anche altre che profumano di infanzia e di rincorse in mezzo a fili d’erba e fiori di campo, di rimpiattini e carne alla griglia e cugini ormai lontani, che rivedi giusto il giorno di Pasqua senza sapere bene di cosa parlarci.

Ce ne sono altre, di attese, che invece non sono affatto romantiche. Sanno di sale operatorie e anestesie totali, di camici bianchi e facce compassionevoli a cui vien voglia di tirare pugni, attese che nessuno vorrebbe vivere ma in cui quasi tutti finiamo per incappare. Meno crudeli ma brutte uguali, certe altre precedono, lo sappiamo già, un finale che non vorremmo e allora ci trascorre davanti tutta la storia che sta per terminare, e ogni singolo momento allegro e triste, e significativo e cretino, e dolce e amaro, tanto vicino e tanto lontano, mentre ti domandi come possa mancarti qualcosa che, in fondo, non se n’è ancora andata, come con le bolle di sapone dopo che hai soffiato nel cerchio e te le vedi volare sopra la testa.

E ancora, attese che ti consumano e al momento della verità ci arrivi già spompato, attese che ti infastidiscono e prenderesti a calci chiunque ti passa accanto, attese che ti stancano e non vedi l’ora che finiscano, attese che ti emozionano e, in segreto, vorresti durassero all’infinito. Attese al buio o delle quali sai benissimo a cosa porteranno, attese in compagnia o da solo, attese in tranquillità o con i muscoli tesi come le corde del violino.

Attese che intanto ti metti a pensare a quante cose devi fare ancora e ti torna in mente quell’impresa che, senza risultato, da almeno dieci anni ti ripromettevi di portare a compimento e che ora, incredibile, decidi di cominciare davvero. Attese che, se non te ne stai con la faccia su Whatsapp e guardi intorno a te, ci trovi di certo qualcun altro che sta facendo la tua stessa cosa e allora magari cominciate a raccontarvi di cosa state aspettando e, in quell’istante esatto, di aspettare avrete già smesso.

Così, intanto che mi figuro tutte queste cose stupide, la ragazza coi ricci è sparita come in una nuvola di fumo e io, io non saprò mai in cosa consisteva la sua, di attesa. Ed è nello stesso momento che un’altra attesa è cominciata. La mia, l’attesa per una nuova storia da immaginare, che non so se sarà quella del tizio con la valigia dall’altra parte del marciapiede o del bambino che porta sulle spalle un borsone da calcio più grosso di lui.

aprile 14, 2014

Le parole che scrivo per te



Un giorno, vicino o lontano, leggerai queste parole, ne sono sicuro.

Forse sarà di mattina, una mattina d’inverno col sole sul tavolo della veranda, mentre fuori un tizio si sgola nel megafono per convincerti a comprare le uova. Oppure sarà un pomeriggio di giugno, dopo un temporale leggero che rinfresca l’aria, e allora da dentro una felpa col cappuccio chiamerai tua sorella in cucina e le urlerai tintinnando: “Senti, senti un po’ cos’hanno scritto per me!”

Magari vorrai assaporarle lentamente, una riga alla volta con la faccia piantata sullo schermo e le dita che intanto sfogliano una rivista di moda. No, no, piuttosto le avrai ingurgitate tutte d’un fiato e in tre minuti netti saprai cosa volevo dirti, ma poi ci tornerai sopra per disegnarne i contorni e le sfumature.

Chi lo sa, forse queste parole ti saranno persino piaciute e quindi le segnerai su un foglietto che porterai con te insieme a quell’altro su cui, mentre dormivi, ho copiato Prévert. O invece ti saranno sembrate semplicemente ripetitive e chiuderai lo smartphone e smetterai di leggere e ricomincerai a camminare con un occhio alle vetrine e uno tra le nuvole.

Non so se ricorderai ancora tutti i momenti a cui si riferiscono e ora ne starai ridendo compiaciuta ma appena tra un secondo una specie di nostalgia ti inarcherà le sopracciglia. O chissà, quelle vecchie faccende saranno solo una nebbia confusa in cui si mescolano episodi di tristezza e d’allegria.

Può darsi che ti lasceranno in bocca il sapore dolce dei cornetti all’alba dopo notti di balli sfrenati, oppure sarà solo l’amaro delle ultime frasi che mi hai urlato nel telefono e che ti saranno tutte di nuovo tornate in mente, ma davvero speriamo di no.

Quasi quasi adesso usciresti, e torneresti a guardare il mare e come quella volta l’accento del tizio che vende i panini nello spiazzo ti strapperebbe una risata. O niente, ti stai solamente guardando attorno e nel frattempo è squillato il telefono e qualcuno ti ha contattato su Whatsapp, e mentre ti sei fermata a rispondergli queste parole sono scivolate via per non tornare mai.

Come vedi, non c’è niente che io sappia. Non so nemmeno se quando leggerai tutto questo io sarò ancora vivo e starò correndo da qualche parte, ma così veloce che non avrò tempo di guardarmi attorno. Oppure, chi può dirlo, sarò già morto da un pezzo, ma non per quello avrò smesso di aspettare che tu le legga.

Già, perché una cosa, almeno una, la so. So che anche senza un destinatario né un indirizzo, anche senza nessuno che conosco e che possa inviartele, anche senza che a te importino minimamente, beh, tu le leggerai, per il motivo semplice che le ho scritte per te.


aprile 06, 2014

Ester

Da quel lato dell’edificio il sole avrebbe battuto di pomeriggio perciò alle nove e mezzo, subito dopo il caffelatte al volo, l’aula era avvolta da una penombra che prometteva di conciliarmi il sonno con una rapidità che neanche certe pilloline apposta.

Con un movimento che avrei imparato a riconoscere tra mille, lei s’era alzata gli occhiali sulla fronte e aveva detto tipo: “Buongiorno a tutti, salutiamo i ragazzi che sono qui nell’ambito del progetto Erasmus. Come vi chiamate, ragazzi?”

E noi allora avevamo pronunciato i nostri nomi e subito predisposto il sorriso alle solite domande, ma a quel punto lei aveva già tirato gli occhiali giù ed era passata dal castigliano all’inglese: “Bene, sui vostri tavolini trovate un foglio con delle tracce, scrivete pure”.

Così, senza un dizionario? Senza preavviso? Senza, senza un’idea? Non avrei saputo da dove cominciare. Come andò avanti non ricordo, avrò certo abbozzato qualcosa che oggi non saprei dire, di quella mattina m’è rimasto solo lo smarrimento assoluto mentre mi domandavo come m’era saltato in mente di frequentare un corso d’inglese in Spagna. E chi fosse quella matta.

Lei era l’insegnante, insomma, e si chiamava Ester. Più o meno trentacinque anni, in testa un caschetto di capelli lunghi abbastanza da legarci ogni tanto un codino minuscolo, un metro e un palmo d’energia scoppiettante, Ester si passava l’intera lezione davanti alla cattedra cui era appoggiata. Così era più vicina agli studenti, e non smetteva un attimo di stimolare correggere incoraggiare.

Bella no, forse non era proprio bella, però però. E che impatto, poi.

Ma non era finita. Lezione successiva, il foglio coi temini della volta prima torna indietro già corretto. E fin qua, dice, tutto normale. Sennonché le aggiunte di Ester sono almeno di dieci colori differenti. Non capisco bene, lei mi vede guardarlo allucinato e magari pensa che voglia criticarla, poi si fa tutta contenta e avvicinandosi esclama: “Ah già, tu non hai questa!”

Così dicendo da un libro che è un soffietto tira fuori un mezzo A4, e nella legenda che ora ho in mano a ogni colore corrisponde un tipo diverso d’errore, in una specie d’arcobaleno delle cazzate che scrivono gli studenti. Tornato a casa ho ormai deciso: non è una matta, è un genio.

Né c’era in Ester solo l’entusiasmo, bensì anche la disciplina di un’insegnante che, per la stesura delle composizioni da spedirle tramite email, aveva previsto un apposito layout a cui tutti noi dovevamo attenerci, in modo da renderle più semplice la correzione.

Dev'essere così, tra temi e grammatica e parole nuove e approfondimenti, che in tre mesi di corso imparai più inglese di quanto ne sapessi fino a prima di conoscere Ester, ma non era nemmeno quello.


Da lei imparai soprattutto ad amare ciò che avrei fatto e a buttarmici dentro come in una centrifuga, a studiare e a migliorarmi giorno per giorno, a metterci grinta ma sempre con allegria, imparai che solo così il lavoro nobilita l’uomo. E ancora oggi, a quasi dieci anni di distanza, nel mio piccolo continuo ad impegnarmi come m'ha insegnato lei.