maggio 30, 2012

Mani lisce come olio di ricino

Il Fascismo s’è fondato sull’ignoranza. Noi non c’eravamo. Per fortuna? Boh, però forse ci siamo persi per strada il vaccino. Non c’eravamo noi, ma chi ha letto qualche libro o ha vissuto senza pregiudizi ve lo confermerà di sicuro. Come riconoscerlo? Difficile, però per certo o non è fascista o è in malafede, perché chi è senza pregiudizi non può essere fascista. Sarà poco, sarà confuso, ma è un primo passo.

Diverso è poi quel che dice qualche nero di loro, cioè che non tutti i fascisti sono ignoranti. Verissimo, ma ciò non toglie che alla base dell’entusiasmo per l’ideologia (quale?) del Duce ci fosse, per dire, un sostanziale disprezzo per lo stato di diritto, in favore di un fai-da-te che si concretizzava nelle squadracce. E da che può conseguire un’idea del genere, se non dall’ignoranza di una classe popolare che non sa che l’abolizione dello stato di diritto consente alle lobby di fare il tempo bello e cattivo?

In queste poche righe ho spiegato da bignami perché fascismo e ignoranza vanno a braccetto, ma ci sono fascisti anche tra le persone intelligenti. Nel qual caso, si chiama malafede. Dirò ora di più, chi fonda un movimento partito gruppo di stampo fascista che funzioni, con ottime probabilità appartiene a questa categoria.

Nel caso di scuola dello stato di diritto, l’arguzia del leader carismatico consiste nel convincere l’audience che le istanze di ciascuno verranno difese con maggior fervore ed efficacia all’interno del gruppo stesso: ciò che tralascia, generando nel pubblico un’implicatura degna di Grice ed è curioso scoprire che la pagina in italiano non esiste su wiki, è che questo meccanismo si mette in moto solo in favore dei componenti il gruppo.

(Termini come “pubblico” e “audience”, quest’ultimo nel suo significato inglese, non sono usati a caso. Qual è l’aspetto più avanguardista del Fascismo? La comunicazione, naturalmente. Avete presenti quei video nazisti pietre miliari nella nostra memoria, ecco, quelli Göbbels e compari li devono ai nostri, che malgrado mezzi alla buona fecero in proporzione meglio di loro).

Torniamo a noi. Cosa c’entra un discorso del genere in questo momento storico? C’entra, a un’osservazione sulla realtà sia macro che micro.
A grandi livelli, ridondante dirlo, l’antipolitica la fa da padrona e si manifesta in dati come un’astensione enorme e in crescita, la sfiducia dei lavoratori nei sindacati e il conseguente trionfo del capitalismo versione selvaggia licenziamenti e meno diritti, di cui fa le spese, indovinate un po’ chi?, ma sì, la classe medio-bassa.

Nel quotidiano, e qui chiudo il cerchio (ci provo, santoddio, ci provo), tra le testimonianze inconfutabili c’è il disprezzo sempre meno strisciante e sempre più tangibile per la cultura. “Il fine giustifica i mezzi”, nient’altro dicono le bocche dei più fighi parolai in circolazione, non conta quanto vali, al massimo vale quanto conti.

“Munnu è e munnu ha statu”, replicheranno gli intelligenti in malafede di cui sopra. Non è vero, no che non è vero, urliamoglielo in faccia. Abbiamo avuto anni in cui perfino quest’Italia, quest’Italia sporca e malandrina e miserabile e leccapiedi l’han guidata le idee di De Gasperi che tremava mentre mandava a morire in Belgio quarantamila minatori, le parole di Calamandrei che sarebbe ora, cristo, di studiare a scuola, gli Scritti corsari di Pasolini e le Lezioni americane di Calvino e i discorsi di fine anno di Pertini.

Era un’italietta da diccì e non c’è un cazzo da rivalutare, vero, ma gli uomini di cultura erano rispettati, almeno nel senso che le loro parole venivano ascoltate. Magari poi ignorate, ma in pubblico sempre indicate a modello. Oggi se non hai niente di paraculo da dire stattene a casa, o sarai ignorato finché si può, deriso in secundis, infine se non t’arrendi linciato, parafrasando una frase che la vulgata sa attribuire al Mahatma Gandhi.

Io però ho letto qualcosa, e così mi par di ricordare che vent’anni furono lunghi, ma quando smisero di divertirsi i fascisti cominciarono a negare di esserlo mai stati mentre fuori si scatenava la caccia alle streghe. Non so se ci sarò ancora per vederlo, casomai prometto a me stesso che saprò ricordare gli sbeffeggiamenti olio di ricino, parole come randelli, uscite trionfanti pari pari a certe foto del Duce mani ai fianchi arringando la folla.

Le ricorderò tutte, giuro, ma niente caccia alle streghe. Ho letto Böll, io, premio Nobel nel ’72 (già, ma a voi che importa?), e so che sarebbe inutile.

maggio 28, 2012

Sotto il cielo di un'estate italiana


Quanti anni, trenta, trentadue, quarantacinque dalla famosa copertina del Guerino e ci ritroviamo di nuovo a parlare di calcioscommesse e di milionari, qualcuno pure in termini di euro, che vendono e comprano partite come fossero pesce al mercato ittico. Anzi no, no, chiedo scusa, quello era trenteppassa anni fa, la vecchia storia di Trinca e Cruciani che a vederli adesso, diomio, non possono che fare tenerezza.

Tenerezza di fronte a quanto è gradualmente venuto fuori negli ultimi mesi, che fra interviste dei calciatori e intercettazioni di telefonate par di leggere un libro di Dan Brown, e non solo perché di rado aggettivi e sostantivi sono accordati sensatamente. Malati del gioco, famiglie sfasciate, riunioni ultras-calciatori, minacce corporali, criminalità organizzata, non so a voi ma a me sembra di stare appresso a un giallo scritto a cazzo di cane.

A questo punto, vi avviso subito, non è che cominciamo con la storia che questi guadagnano un sacco di soldi e allora dovrebbero essere più saggi perché, si sa, il denaro è così e più ne hai e più ne vuoi e meno ne vorrai e meno ne vedrai e via così secondo i dettami di Tiziano Ferro. Il punto invece è un altro, a mio parere modestissimo: ma tutta la combriccola dei giocatori pensava veramente di parlare al telefono per mesi di queste faccende e non farsi mai beccare?

Onestamente, ma chi di noi non è cosciente che qualunque conversazione può essere intercettata, specialmente se si tratta di roba losca? È una cosa di cui non riesco proprio a darmi pace, ma com’è possibile che non venga in mente a nessuno che, ad esempio, le forze dell’ordine possano sospettare che esista un’organizzazione del genere e agire di conseguenza? Boh, sarò fesso io…

Detto questo, i provvedimenti di stamani hanno certo del clamoroso, tenendo sempre in conto di quanto è indegno che per quanto la privacy sia all’ordine del giorno nella metà dei nostri discorsi da bivacco sia ancora possibile nell’anno 2012 realizzare video del genere, con i giornalisti che vengono avvertiti dell’arresto e si fanno trovare sotto casa dell’indagato (perché è un indagato sotto custodia cautelare, mica un colpevole, ricordiamocelo. E se succedesse, giusto per dire, a uno di noi?)

E insomma, siamo qua. Diciannove arresti, più di cento persone sotto inchiesta, un possibile titolare ai Campionati Europei di calcio raggiunto da un avviso di garanzia direttamente a Coverciano. Già, gli Europei. Si parte per Polonia-Ucraina 2012 con uno scandalo alle spalle e allora che bello e giù paragoni con il Mondiale di Lippi e Calciopoli (che peraltro nel confronto sbiadisce da paura), come se anche una vittoria di quel tipo potesse cambiare lo schifo a cui assistiamo, pensare che il calcio possa essere anche, ancora, uno sport.

Non lo so, non me la sento e cerco rifugio nella storia. Andando a caso ripesco Zamora e il suo basco che ci ferma nel ’34, gli Azzurri del ’62 ad allenarsi in nave, il portiere Moro condannato a invecchiare da solo in Tunisia, la monetina del ’68 nella scaramantica Napoli, il gol di Bettega all’Argentina di Videla, Baggio che nel ’90 s’infila palla al piede tra due cecoslovacchi. Un’ultima sorpresa la Danimarca del ’92, poi furono i Mondiali negli USA, quelli dell’afa pur di far contenti gli sponsor.

Non lo so, non me la sento. Ora come ora, l’unica cosa che vale la pena ricordare sono le parole più belle e celebri pronunciate da Enzo Bearzot quando Gianni Mura gli chiese come voleva essere ricordato. “Come una persona perbene”, aveva risposto lui. C’è riuscito, ma adesso mi chiedo: una persona così avrebbe modo di allenare, oggi? E come, di grazia, in mezzo a gente che pensa ad arrotondare scommettendo sulle proprie sconfitte? Altri tempi, altri uomini. 

maggio 24, 2012

Il giorno che Nikita


Come te la immagini la Russia, ragazzo? Quando senti questo nome pensi al Caucaso e alle sue pianure o a distese di ghiaccio fin dentro le città, ai binari della Transiberiana o al regime comunista che fino a qualche anno fa popolava gli incubi delle notti dell’Occidente? A tutte queste cose insieme pensava un giorno di settembre del 1971 Nikita Chruščëv, mentre con la grafia incerta di chi ha imparato a scrivere a trent’anni tirava giù le sue memorie e aspettava di finire un’esistenza ormai senza senso.
In Europa si spegneva l’incendio del leggendario maggio di Parigi, intanto queste fotografie gettavano acqua sul fuoco dentro Nikita, masochista come chi nella miseria ricorda il tempo felice. Felice di un’infanzia umile ma operosa, di avere calcato le pianure di casa sua come pastore e di esserci poi tornato da Segretario del Partito, di aver raggiunto ciò che nella sua povertà e ignoranza di bambino non sarebbe mai stato in grado nemmeno di sognare.

E ora macerie, nient’altro che macerie, eppure me lo ricordo come se fosse oggi. Invece sono dieci anni e sembra un secolo. Quando mi passano la chiamata non riesco proprio a crederci, devo avere le traveggole eppure com’è possibile, proprio oggi che la bottiglia di vodka non l’ho nemmeno sfiorata? Oppure sì, certo, sarà lo scherzo di un compagno buontempone di qualche ufficio pubblico che non ha voglia di lavorare! Allora aveva proprio ragione quel dannato Bulgakov! Ma no, ma no, Nikita, non si permetterebbero mai, lo sanno bene che se si facessero scoprire li fucileremmo.
Squilla da mezz’ora, adesso basta, è ora di alzare quella maledetta cornetta. Nel russo stentato dall’altra parte, l’accento rivela inconfondibilmente le origini latine di chi sta parlando:
“Pronto? Qui è il segretario di stato vaticano, parla il presidente Chruščëv?”
“In persona, ditemi pure”
“Stiamo per metterla in comunicazione con il Santo Padre, che ha manifestato la volontà di trasmetterle i suoi auguri di buona Pasqua”.
Chi avrebbe mai potuto dirlo, per la maledetta steppa caucasica? Ah, se solo mio padre fosse ancora vivo vorrei proprio vederla. Già me lo immagino, a saltare così in alto sulla sedia che i pantaloni di fustagno gli si strapperebbero, e poi mi direbbe “Ne è passato di tempo da quando ammassavamo il concime in quella stalla puzzolente, Nikita!”

S’infervora Nikita, d’improvviso sembra tornargli la voglia di vivere, perché i ricordi sono la sua condanna ma anche tutto ciò a cui gli rimane da aggrapparsi, quella che sembra vanagloria è solo l’ultima cartuccia, quella a salve di chi non ne ha più da sparare. A chi l’ha conosciuto uno tra gli uomini più potenti del mondo, non potrebbe far altro che pena un Nikita Chruščëv tanto velleitario, ma se come dicono la vita prende e dà allora lui adesso è lì per dimostrarlo.

È dentro il Vaticano ormai, il papa celebra l’Angelus dalla sua finestra e Nikita, dentro, lo aspetta bellicoso.
“E insomma, quanto durerà questo discorso da due soldi? Cosa ci fa tutta quella gente in piazza ad ascoltare? Non mi toccherà certo pensare in tutta ‘sta commedia del comunismo quel Marx non aveva completamente sbagliato quando diceva “oppio dei popoli”! Certo che però ne avremmo da imparare, questo tizio vestito di bianco ci mette tutti nel sacco!
Lo vedi così inerme nella sua tunica bianca e l’espressione così mite che ti viene quasi da crederci alla storia del Crocifisso che è morto per noi, del ricco che non entrerebbe in paradiso più del cammello nella cruna di un ago, della vita di sofferenza per aspirare a un aldilà migliore… Lo vedessero tutti quanti ciò che visto io in questi due giorni, un cumulo di debosciati che si trastullano negli ozi della vita di palazzo, un raduno di banchieri e puttane che se la spassano a spese dei fedeli, un centro di potere nel quale si decide quale guerra sì e quale guerra no. Ma ci pensi, loro, che vorrebbero indicare a me la via della santità!
Eccolo, è quello lì che ha capito tutto, mentre manovra il microfono e giochicchia su quell’affare pieno di pulsanti e manopole quello non sta nemmeno ad ascoltarli, si prende il suo stipendio e se ne torna a casa, altroché!”

Su questo, in effetti, bisognerà pur dire che nel suo vaneggiare Nikita non aveva tutti i torti. Proprio quella mattina Stefano Rossi, con il suo cognome da esempi dei politici, mentre si vestiva smaltendo la sbornia della notte prima, masticava solo una gomma per l’alito e pensieri di ventisette del mese. E adesso, vedendolo tanto rilassato dinanzi al suo mixer lo avresti detto il timoniere di una nave durante la bonaccia, quasi sbracato, avrebbe osato dire, ma sempre per quanto la situazione potesse consentirlo, perché lo stipendio era l’unica cosa che dentro l’intero stato Vaticano uno come lui potesse considerare sacra.
A sentirne parlare in questi termini, potresti pensare che Stefano Rossi fosse uno di quei cinici che ti passano davanti mentre fai la fila alle Poste. Balle. Gli sarebbe piaciuto, forse, e invece. Tutte balle.
Trentaquattro anni e ancora non doveva aver imparato niente della vita vera, se quella sciacquetta era l’ennesima a essere riuscita nella non difficile impresa di fregarlo in pieno. S’era svegliato una mattina qualunque di sei mesi fa e degli occhi neri di Elisabetta non c’era più traccia, e se per questo nemmeno di quei quattro soldi che teneva a casa, giusto per non lasciare dubbi su chi aveva vinto e chi aveva perso.
Lui non lo ammetterebbe mai, ma è questo il vero motivo per cui adesso se ne sta lì con l’aria trasandata nel suo vestito grigio scuro, che prima di essere indossato da lui era stato di certo elegante, e gli occhi socchiusi e abbassati sul suo strumento di lavoro. Una dose abbondante di gel ha addomesticato i ciuffi ribelli della sua chioma scapigliata, la barba è cortissima, avrà ricordato di farla un minuto prima di uscire di casa, la camicia è bianchissima e non fa una piega quasi l’avesse appena presa in tintoria e caricata al volo in macchina. E insomma, la cura di ogni dettaglio non smette di rivelare la sciatteria dell’insieme, di uno di quelli cui non puoi rimproverare niente se non di essere loro stessi.

Nel suo deliquio di quel pomeriggio, Nikita Chruščëv confondeva con terribile sofferenza se stesso e Stefano Rossi, entrambi defraudati da una vita che restituiva loro infinitamente meno di quanto le avessero dato e, in ultima analisi, a questo danno aggiungeva la beffa del nemico, ancora oggi sorridente in un angolo di paradiso qualsiasi. Una mano di figlia ne asciugava il sudore che gli imperlava la fronte quando si svegliò, affannato con la testa appena fuori dalle coperte, stremato per lo sforzo ma finalmente sollevato.
“Ancora quella storia” sussurrò senza farsi sentire la donna al marito, “continua a sognare d’essere stato in Vaticano, Aleksej”.
“Stai tranquillo papà, va tutto bene”.
 “Grazie, Rada”, le sorrise Nikita.
Un sorriso gli affiorò sul volto, intanto che gli oggetti si sfocavano davanti ai suoi occhi.
Fu così che se ne andò Nikita Chruščëv, un pomeriggio di fine estate sognando il Vaticano che non aveva mai visto.

maggio 14, 2012

Quello che (non) ho

Fabio Fazio non mi piace, come tanti lo trovo viscido e mai veramente incisivo, per codardia e non per incapacità. Epperò le persone che hanno qualcosa da dire, DAVVERO qualcosa da dire, vanno quasi tutte da lui e allora com’è come non è le sue trasmissioni mi trovo a seguirle tutti.

A proposito di gente che sa di che parlare, in questo programma l’altro padrone di casa si chiama Roberto Saviano e ha un’idea rivoluzionaria nella televisione dei tempi “stringatissimi” (aaah!): lanciarsi in monologhi che per di più no, non abbisognano del carisma di Mr. Celentano. No, lui pretende che realmente si ascoltino i contenuti. Roba da matti.

Ricordo che l’anno passato circa questa faccenda e Vieniviaconme ebbi una discussione su Fb con della gente che si seccava di starlo a sentire e conclusi con un “Ve lo meritate Beppe Grillo!”. Esageravo, certo, uno di loro mi escluse addirittura dai suoi contatti, fatto sta che oggi Grillo ha almeno il 7% e io penso ancora che l’antidoto a chi la vince con le battute e le boutades può essere solo riflettere, lavorare su se stessi, approfondire, migliorarsi.

Tanto più che Quello che (non) ho è un programma fatto notevolmente meglio del suo predecessore dalle liste insulse. Si articola così: ciascuno degli ospiti sceglie la parola che più sente sua e, nel presentarcela, ci descrive a partire da essa la propria visione del mondo. Certo, si incappa nella solita rassegna di membri della ditta Che tempo che fa e dintorni, vuoi la Littizzetto che ci illustra il pensoso stato in cui versa la satira televisiva italiana (se è lei la migliore, figuriamoci il resto), vuoi Gramellini Travaglio Lerner che la buttano in politica come ce ne fosse ancora bisogno. Più gradevole Paolo Rossi che parla di finanza, e con lui Erri De Luca, che pure non mi è propriamente simpatico ma che almeno si distingue per originalità.

C’è però anche tutto il resto, personaggi in parte sconosciuti al grande pubblico e forse proprio per questo deliziano. Assistiamo così al monologo di Lila Azam Zanganeh (vuoi conoscere la differenza tra avvenenza e bellezza? Guardala un po’), ma anche al giornalista Ermanno Rea, che descrive la forza dirompente di chi sa sognare l’impossibile. O ancora l'Yvan Sagnet di reportiana memoria, per me senza dubbio un VERO eroe dei nostri tempi con la sua lotta per i diritti degli immigrati.

Lo spettacolo è perciò godibile, nella misura in cui non immaginiamo il suo spiegarmi come un filo da un gomitolo, ma come una raggiera che fa capo a un unico centro dal quale si distanzia variabilmente, ora raggiungendo picchi (come la lettura di Francesca Inaudi) e ora calando nuovamente verso la realtà. Ma è toccante pure la dedica di Pierfrancesco Favino alla nascitura figlioletta, se poi non arrivasse quel Fazio che ammicca al pubblico ricordandogli che termini come “apericena” o “movida” non si possono sentire (il gran paraculo!).

Una raggiera, un centro. E il centro, sperando di non rimetterci altre amicizie su Fb, sono i monologhi di Roberto Saviano. Due, per la precisione. Il primo è utilissimo e ci racconta con il tono accorato dello scrittore il massacro di Beslan. Ecco, dimenticavo, la forza dei monologhi di Saviano sta secondo me nella sua capacità di farci empatizzare con i “deboli” della storia che di volta in volta racconta.
Il discorso più toccante, però, è per me il primo, dedicato al lavoro e alla crisi, ai suicidi e a come essi siano anche legati allo sciacallaggio della camorra che vi specula con finanziarie come l’Aspide s.r.l. Da brividi, poi, la conclusione che cita Calamandrei e una piccola e vecchia storia della Sicilia, di quando ancora sapevamo essere grandi.

maggio 09, 2012

Non è mica da questi particolari


Bucarest, ultimo atto dell’Europa League. In campo ci sono Atlético Madrid e Athletic Bilbao e l’hanno detto un po’ tutti che è la finale degli spagnoli poveri, quelli che non si chiamano Real né Barcellona. Però se ci pensi gli uni sempre dalla capitale vengono, e pure gli altri, come i catalani, sono separatisti mica da ridere, anzi nella loro rosa se non sei basco non ti ci vogliono proprio.

Insomma, la partita comincia e i madridisti sembrano molto più a loro agio, giocano sciolti e quell’Arda Turan all’ala sinistra dà qualche saggio del campione che sarebbe potuto diventare non si fosse perso per strada. Il Bilbao invece parte impacciato, e il cronista, che per esso fa il tifo, ne attribuisce la ragione a quest’orrenda casacca vede che sembra messa lì apposta a ricordare l’importanza nonché la bellezza di indossare i propri colori sociali. Ma stasera non si può, ché il biancorosso l’ha portato via il Madrid.

Pronti via e Falcao, il fromboliere dell’Atlético, ci spiega perché l’hanno pagato una quarantina di milioni di euro. Decentrato sulla destra dell’area di rigore avversaria, fronte a fronte col suo marcatore, rientra sul sinistro e indovina il giro all’incrocio dei pali più lontano. Sette minuti e il colombiano s’è già assicurato per la prossima stagione un posto in uno dei top team europei, mentre il suo tecnico Simeone, uno che Lo Monaco a Catania aveva salutato senza tanti complimenti, può ben esultare nel suo total black in panchina.

Io me la godo così, sperando che i baschi punti nell’orgoglio tirino fuori il bel gioco di tutto l’anno e si aggiudichino il trofeo in palio, ma mi tocca restare deluso. Certo, Muniain è il solito folletto ed è imprevedibile quando tocca palla, ma un’azione non si riesce proprio a imbastirla e, in più, diversi errori in disimpegno aprono praterie nelle quali Falcao e suo compare Diego (altro scarto della serie A) s’inseriscono spesso, volentieri e pericolosamente.

Tanta grinta e tanta confusione fino alla mezz’ora, poi c’è l’ennesimo svarione, stavolta di tale Amorebieta, giusto al limite della propria area; Arda Turan ringrazia e mette in mezzo, dove il solito Falcao manda giù il suo marcatore con una finta e poi segna ancora. Nel suo delirio, Bruno Longhi, scadente ma tutto sommato meglio di certi esaltati (ehi, a proposito di telecronisti date un orecchio a Lollobrigida), parla di due invenzioni di Falcao che stanno decidendo la partita.

Io sarò incompetente, ma avrei visto una gran prestazione dell’Atlético in termini corali, una squadra bravissima ad aspettare l’avversario nella propria metà campo, compatta nel resistere ai suoi attacchi e pronta a ripartire sfruttando un attacco davvero di buon livello, con il già citato Arda Turan, Diego e questo Adrian López che è di sicuro la più grossa sorpresa di stasera, ma forse lo è solo per me (mi dicono dalla regia che avesse vinto la scarpa d’oro all’Europeo under 21 dello scorso anno).

Il secondo tempo promette scintille, El Loco Bielsa s’inventa un paio di cambi e io mi aspetto che voglia dimostrarmi perché in Europa lo vogliano tutti, o almeno così pare. A confermare l’impressione ci sarebbe uno spunto del solito Muniain dopo appena trenta secondi, ma per il resto è calma piatta, l’Athletic attacca annaspando e il Madrid controlla comodamente con due dita sul trofeo (Mancini copyright). Il primo tiro della ripresa, bontà loro, si vede al 68’ ed è un destro al volo del basco Ibai Gómez. Alto.

Va avanti così per un pezzo, e la speranza di conquistare la vecchia UEFA tramonta lentamente per i pirenaici e anche per me, che sinceramente mi auguravo la vittoria di una formazione protagonista di un gioco spumeggiante per tutta la stagione e soprattutto autarchica quasi totalmente. Sarebbe stato il trionfo di un’intera comunità, di cui una volta tanto anche gli stessi calciatori fanno parte, tanto da sentir dire con tono sognante a un tifoso in un’intervista del pre-partita che “è possibile incontrarli per strada, parlare con loro”. E invece niente.

L’assalto finale è improduttivo, per il Bilbao ci prova un paio di volte il terzo attaccante Susaeta (della prima punta Llorente, stasera neanche l’ombra) ma è bravo anche Courtois, il portiere dell’Atlético; Falcao fa ancora in tempo a colpire un palo prima che Diego metta dentro il 3-0 con un diagonale da dentro l’area, dopo averne seminati un paio. È finita, Atlético Madrid campione. Auguri.