luglio 25, 2012

La gloria dei brutti


Feci caso a Lupe e Lolo, sono tanti anni ormai, perché erano, senza alcun dubbio, quelli strani del quartiere. Ci sono bambini che sin dalla culla si distinguono dagli altri e, quel che è peggio, conoscono questa loro differenza e ne soffrono. Sono proprio questi i bimbi che finiscono per esser sempre presi in giro; che vagano come anime in pena, di gruppo in gruppo, mendicando un amico. È sufficiente che il professore li chiami alla lavagna perché il resto della classe scoppi a ridere, per quanto in realtà non ci sia in loro niente di ridicolo, a parte il loro destino di vittime e la loro mansuetudine nell’accettarlo.

Lupe e Lolo erano così: portavano una stella in fronte. Lupe era la figlia della vicina del terzo piano, una signora tettona e sferica. La bimba venne fuori rotonda sin da piccolina; aveva due gambe storte che, dal ginocchio in giù, andavano una da un lato e una dall’altro come le aste di un compasso. Non è che fosse grassa; è che era fatta male, con un corpo che sembrava un siluro e il mento che usciva fuori direttamente dallo sterno.

Ma la cosa peggiore, in tutto questo, era qualcosa dentro di lei; qualcosa di angosciante e di incompiuto. Aveva un bel viso, gli occhi verdi e i capelli neri neri, la bocca ben formata, il naso regolare. Però aveva lo sguardo ruvido, e la faccia coperta da un’espressione di perpetuo stupore. Da piccola la vedevo avvicinarsi ai gruppetti degli altri bambini: è sempre stata possente e sovrastava tutti. Però gli altri sembravano ignorare la sua presenza fuori dal comune, il suo sguardo di vetro; continuavano a giocare senza prestarle attenzione, come se non esistesse. Da principio, Lupe gli correva dietro, stupida e sgraziata, cercando di essere come gli altri; solo che, quando arrivava lei, gli altri se n’erano già andati. Con gli anni la vidi rassegnarsi alla sua non esistenza. Passava il tempo percorrendo il quartiere da sola, sempre con la stessa velocità e ripetendo le strade, con quella determinazione vuota e inutile con cui i pesci percorrono più volte i loro acquari angusti.

Quanto a Lolo, lui viveva più lontano da casa mia, in un’altra strada. Feci caso a lui perché un giorno gli altri bambini lo lasciarono legato a un palo della luce nei giardini della piazza. Era il mese d’agosto, alle tre di pomeriggio. Faceva un caldo infernale, il palo era al sole e il ferro scottava. Lo slegai, piangeva e gli colava il naso, mi offrii di accompagnarlo a casa e gli chiesi chi l’aveva ridotto così. “Non volevano”, mi rispose tra i singhiozzi, “è che si sono dimenticati di me”. E scappò correndo. Era un bimbo magrissimo, con il petto scavato e le gambe come due stuzzicadenti. Camminava ingobbito, come se di fronte gli stesse sempre soffiando un ventaccio spaventoso, ed era così fragile che sembrava che dovesse sfaldarsi da un momento all’altro. Aveva capelli rossi e tesi, naso enorme, occhi spaventati. Il viso come quello di una maschera da ballo, una faccia da barzelletta. Allora doveva essere sul punto di compiere dieci anni.

Poco dopo venni a sapere il suo nome, poiché gli altri bambini lo chiamavano tutto il tempo. Proprio come Lupe era invisibile, Lolo sembrava onnipresente: gli altri bimbi non smettevano di martirizzarlo, come se il suo aspetto da nanerottolo triste suscitasse in loro una sorta di ferocia entomologica. Di sicuro, una volta si incontrarono in piazza, Lupe e Lolo: ma non si guardarono neppure. Si respinsero l’un l’altro, come appestati.

Passarono gli anni e una sera, il primo giorno di caldo di un mese di maggio, vidi arrivare dalla strada vuota una creatura singolare: era un ragazzo scheletrico di una quindicina d’anni con una maglietta verde fosforescente. I suoi jeans, troppo corti, lasciavano scoperte le caviglie appuntite e due tibie magre; ma il peggio erano i suoi capelli, un cespuglio denso rosso e secco, pettinato con il gel, in stile anni Cinquanta, come una specie di budino immangiabile sul cranio. Non mi ci volle molto a riconoscerlo: era Lolo, sebbene un Lolo cresciuto e trasformato in un adolescente calamitoso. Continuava a camminare ingobbito, ma ora sembrava che fosse il peso dei capelli, di questa specie di portata volante che coronava la sua testa, a causare il dislivello.

E quindi vidi lei. Lupe. Arrivava dallo stesso marciapiede, in direzione contraria. Anche in lei la pubertà aveva raggiunto l’apice durante l’ultimo inverno. Le era cresciuto lo stesso seno di sua madre, di modo che, non avendo quasi collo, sembrava portare la faccia su un vassoio. Aveva tinto i suoi bei capelli scuri di un biondo violento, e se l’era tagliati corti, stile punk. Insomma, erano tutti e due francamente spaventosi: erano fioriti, secondo il loro destino, come esseri ridicoli. Però si vedeva che avevano voglia di spaccare, che erano sul piede di guerra.

Il resto, alla fine, successe inevitabilmente. Camminavano assorti e si scontrarono l’uno con l’altra. Allora si guardarono come se si vedessero per la prima volta, e si innamorarono all’istante. Successe un undici di maggio e, anche se loro magari non se lo ricorderanno, quando gli occhi di Lolo e Lupe si incontrarono tremò il mondo, i mari si agitarono, i cieli si riempirono di meteoriti ardenti. I brutti e i tristi vivono anche i loro momenti di gloria.

luglio 23, 2012

Grazie, Martina


E insomma sono lì disteso a quattro di bastoni in spiaggia con l'asciugamano bella che rivolta al sole, è una mattina di giugno ma il caldo ci sta già dando dentro, quando m'arriva 'sta chiamata da numero sconosciuto.
Io rispondo pronto e lei si presenta, Martina, con questa voce nasale e l'affanno notevole di una che, proprio in quell'istante, il mondo ce l'ha tutto sulle spalle. Mi ricorderò, Martina è certa, che l'anno scorso ho fatto le selezioni per animatore nei soggiorni di vacanza per ragazzi.
Ma sì che mi ricordo, Martina, e allora? Allora avremmo pensato a te per una partenza dalla Sicilia in Puglia, che ne diresti? M'hai preso davvero alla sprovvista, le faccio io. Ed è vero, come no, tanto che rimango lì intontito e zitto e a quel punto me la sento sospirare nel telefono, Martina, e poi d'un colpo sbuffare e attaccare con questo tono da piagnona: "E dai, non mi dire di no pure tu che stiamo messi malissimo quest'anno, cosa dico ai ragazzi, che dobbiamo rinviare la partenza?"

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Non ti offendere, Martina, ma non è che me ne fregasse qualcosa dei tuoi problemi, è solo che avevo sognato la mia estate e da sognare non c'era niente, così alla fine a dirti di sì non c'è voluto molto, giusto il tempo di ficcare il libro di Tondelli nello zainetto e partire in treno per Agrigento.
Due ore di viaggio, Martina. E poi altre dodici d'autobus fino alla Puglia che mi sembrava di non arrivare più. Ma era solo perché non sapevo cosa m'aspettasse al ritorno, che con lo sciopero dei traghetti a Messina ce n'abbiamo messe venti, di ore, e ho perso l'ultimo treno per arrivare a casa e adesso per il prossimo tocca aspettare l'alba in questa piazza rotonda di Agrigento.
Eppure, Martina, con queste due settimane m'hai proprio svoltato l'estate. E le serate coi maschi vestiti da femmine e viceversa, e in autobus tutti a sgolarci con le lagne di Tizianoferro, e il torneo a beach soccer sulla spiaggia che i miei l'hanno vinto all'ultimo minuto e avresti dovuto vederlo quando mi sono saltati addosso per festeggiare, che mi s'è spaccato un labbro e m'han dovuto dare tre punti.
E poi quell'altra volta che siamo finiti a parlare di musica e quelle due mocciosette m'han dato una lezione che me la ricorderò. Ah, Martina, e che figata vederle nascere, quelle storie d'amore che a tredici anni non è più il tempo delle mele e ne sapevano più di me, e allora passare la notte nei corridoi per evitare che s'accoppiassero, che l'ultima mattina son stati dolcissimi e m'han portato anche il caffè.
No, tutto bellissimo, Martina, ti chiamavo a quest'ora di sera solo per domandarti se posso tenerla una delle magliette che m'avete dato come divisa. Anche perché sai, Martina, sarebbe inutilizzabile ormai che l'ho tutta riempita con le dediche dei miei ragazzi.

luglio 21, 2012

Mi avevi già convinto a "ciao"

Dice, il libro che t’ha cambiato la vita. Quello che ha preso il bozzolo di una persona curiosa e l’ha trasformato nel baco da seta di un lettore fervente, e di solito è un gran romanzo di quelli travolgenti, magari con dentro una storia d’amore tormentata. Oppure anche no, però insomma, che sia almeno una pietra miliare della letteratura!


Così per me ricordo Siddharta o Il Maestro e Margherita o Opinioni di un clown, citando solo i primi che mi saltano in testa ché le raccolte di figurine non m’han mai confinferato. Però se devo citare quel momento lì, dai, quel momento in cui la crisalide… tac! d’improvviso è diventata farfalla, beh, su di me non è merito delle centomila facce di Pirandello né dei ragionamenti complessi eppure chiarissimi di Sciascia, delle pagine d’amore lacrimevoli di García Márquez né degli eroi dimenticati o del killer sentimentale di Sepúlveda, dei manager rampanti di Tom Wolfe annichiliti dal proprio ego né del vecchio pescatore di Ernest Hemingway.

Mi piacerebbe che fosse così, davvero, farebbe un grande effetto ogni volta che lo ricorderei, però si sa che il primo grande amore è sempre per qualcuno che magari non vale nulla ma che l’adolescente brufoloso è lì ad idolatrare chissà perché. E insomma, a farla breve, quando il lettore in me ha preso il volo non c’era una pagina scritta davanti, ma un piccolo schermo che proiettava… Jerry Maguire.

Manco ‘sto gran film, lo capisco, tra Tom Cruise che fa il compitino, Renée Zellweger che non è ancora Bridget Jones e soprattutto Cuba Gooding Jr. e quel balletto “Coprimi di soldi!” da impazzire. Ma quindi cosa ci avrà visto lo sfigato del liceo di allora in quella roba lì? Boh, direi proprio... tutto.

Questo tizio che parte avvantaggiato, è al top ma a un certo punto vincere facile non gli basta più, vuole anche una coscienza e poi però tornare in alto, stavolta alle sue condizioni. Insomma, sia all’inizio che alla fine del film Cruise/Maguire è bene o male un tipo figo e famoso e un procuratore sportivo di successo, dunque ciò che differisce non sta fuori, ma dentro di lui, in quel percorso lungo e tortuoso che l’ha cambiato del tutto.

E a un adolescente che un po’ sospettava che tutti quei comunistelli nel cortile del liceo seguissero solo la gran moda dei diciottanni e che lo facessero pure coscientemente, beh, a uno così come faceva a non piacergli una storia del genere?

Voglio dire, un tizio che sì, rifiuta la mentalità del successo a ogni costo, manda tutti a fanculo e finisce per toccare il fondo eppure non si mette a disperarsi né a lamentarsi, no, non comincia la solita lagna che si può esser grandi e nel proprio piccolo e chi s’accontenta gode e Renée è così bella e il bimbo tanto simpatico che se anche mi mettessi a fare il farmacista sarei felice lo stesso.

Jerry Maguire non si ferma, lavora su di sé senza mollare finché non torna lì, nell’olimpo dei procuratori sportivi con questo giocatore che ha letteralmente tirato fuori dalla barzelletta. E dieci anni fa questo dovette essermi sembrato uno di quei messaggi che ti cambiano la vita, una specie di mantra che recita “Impegnati e sarai premiato” anche se rifiutassi le regole del cazzo che guidano la faccenda.

E magari t’aspetta pure una Bridget Jones che dal suo carico di delusioni ha persino la forza di incoraggiarti al ristorante “Non raccontiamoci le nostre storie tristi”, una che quando la guardi ha sempre quella faccia sorpresa e grata di tanta attenzione, che ogni volta pare la prima e che forse ha pure un vestito nero che te lo ricorderai per un bel po’.

Vabbé ok, poi è chiaro che se appena appena ti guardi attorno in quest’italietta dove la meritocrazia è un miraggio ti viene da prendere Maguire e sbatterlo contro un muro e dirgli “Ehi amico, e qui come cazzo ne usciamo?” e mollarlo lì come un ebete e giù i titoli di coda. Però lo sai che a un certo punto riapparirebbe nel salotto di casa tua e ti travolgerebbe di parole e, ancora dieci anni dopo, non potresti che rispondere “Mi avevi già convinto a ciao!”.

luglio 11, 2012

Qualcuno ci aiuti


Ogni anno la stessa storia della RAI che a estate inoltrata appiccica in basso a sinistra sullo schermo un bel titolo nuovo e ogni sera ci propone l’unico materiale decente che ormai può permettersi: i suoi filmati d’archivio.

Da sadico inguaribile, non posso che invidiarne gli autori, ché li pagano per rigirare il coltello nella piaga di un pubblico ormai disperato, in balia di questi tempi di miseria e di Veline, di vacche magre e di Otto e mezzo.

La puntata che ho visto mostrava sì tanta roba francamente invedibile pure per il nostalgico patentato che sono, una marea di spezzoni dell’andato Quartetto Cetra intervallati da monologhi che declinano Roma nelle sue varie sfaccettature. In mezzo ci becchi anche Guzzanti e Brignano, non proprio due novellini e anzi tra i comici meno peggio di un panorama tv italiano irrimediabilmente disastrato (a differenza di un web molto attivo in tal senso).

Eppure, fermo restando il talento smisurato del primo e la scuola Proietti del secondo che li collocano tra i pochi ancora capaci di far ridere qualcuno, era impossibile non notare uno scarto enorme fra le trasmissioni più vecchie e quelle più recenti, diciamo dagli anni Novanta in giù, scarto che va chiaramente a favore delle prime.

Stralci non proprio memorabili, ripeto, il Quartetto Cetra in tutte le salse canticchia ritornelli nati già vecchi (qualcosa come “pizza mare sole e nonzocché”) e dà il suo peggio in attualizzazioni improbabili di classici letterari, spingendosi fino al culmine del ridicolo quando compaiono Al Bano e Romina vestiti da Renzo e Lucia.

Epperò, a non farsi distrarre dalla corona di stelle della prima moglie del Carrisi, cui seguirà comunque la Lecciso e questo vorrà pur dire qualcosa, c’è un aspetto che non si può non notare.
La scrittura.

Ebbene sì, ancora una volta il segreto è tutto lì. Vuoi che, come spesso si dice, ci fosse una settimana di tempo per preparare un’ora di spettacolo, vuoi che, citando il compianto Monicelli, gli autori d’allora erano persone dotate di cultura vasta e davvero generale, fatti sta che a rivedere tutti i vecchi programmi è impossibile non accorgersi dell’elevata qualità della scrittura.

Avete mai visto, anche per errore, pezzi di Canzonissima, Teatro 10, Scala Reale e via discorrendo? Chi è sul palco parla sempre un italiano impeccabile e, soprattutto, costruisce pensieri articolati e pertinenti e insomma si ha sempre l’impressione di seguire, come usa dire di questi tempi, il filo logico di una “narrazione”. L’esatto opposto della tv d’oggi, scritta coi piedi e interpretata peggio, totalmente affidata all’estro di chi va in scena, peraltro scarso in un buon 80% dei casi.

E mentre su queste stupidaggini, stupidamente, rifletto, Teche Teche Te’ finisce e lascia spazio a Porta a porta. Appunto. Rinvengo che stanno inquadrando Formigoni e non mi rimane che cambiare canale.

Approdo a Rai Storia dove parlano di Cavour, accompagnandosi con immagini per lo più tratte da uno sceneggiato sulla sua vita del ’67. Oggi, ad andar bene, tocca veder scempiare la figura del grande Borsellino. Qualcuno ci aiuti.

luglio 09, 2012

Cruciverba (per solutori abili)


A volte si prova a sfidare i propri miti, uno dei miei si chiama Bartezzaghi e scrive cruciverba per La Settimana Enigmistica. Allora ne ho preparato uno che, come i suoi, è “destinato ai solutori più abili” e ve lo propongo, sfidandovi a risolverlo: vediamo se qualcuno tra i miei lettori riuscirà a rimandarmelo completo.

Istruzioni (semplici) per l’uso: aperto il link sottostante, premete download e scaricherete il file excel con lo schema. Passando con il mouse sopra le caselle, potrete leggere le definizioni.

luglio 07, 2012

I migliori di via Mazzini


Alle undici d’un martedì della fine di aprile giù in cortile l’estate è un’ipotesi concreta che prende forma nei gelsomini fioriti e nell’asciugarsi della pozzanghera al centro, ormai eterna. Il bastardino Flicky aveva avuto modo di notarlo nel pomeriggio quando Antonio l’aveva portato a far pipì, e perciò adesso se ne sta tranquillo nel suo angolino. Il suo muso inequivocabilmente triste fissa i quattro che si rincoglioniscono davanti a un telefilm qualsiasi, ignari della primavera che fuori torna a pulsare di vita.

Collegata al piano di sotto da una scala interna, la mansarda è alta abbastanza da poterci stare anche in piedi. Certo, Giampiero e i suoi due metri e tre di stazza non c’entrano comunque. Ma tanto, anche quando non stanno mangiando stretti intorno al tavolino al centro della stanza, i ragazzi finiscono sempre per stare tutti seduti sui due divani vecchi e comodissimi, a guardare il megatv di Antonio fumando qualche canna che il tempo intanto passa.

Attribuirsi come nome ”I migliori di via Mazzini” rivela quantomeno una bella dose di autoironia a chi conosce la toponomastica (via Mazzini è una stradina laterale con un unico palazzo). Stasera il gruppo non è ancora al completo, ma chi deve ancora arrivare sta già suonando il campanello e così Antonio si alza per aprire, mentre le orecchie di Flicky si drizzano come antenne.

“E falla girare, cazzo”, sbotta Mirko. Una smorfia tradisce Caterina, accennando di stupore e di delusione nei suoi occhi neri neri. Non si sarebbe mai abituata. E dire che in mezzo agli uomini c’è cresciuta, che per imparare l’inglese ha vissuto da sola a Londra con due ragazzi, con gli annessi e connessi di amici che arrivavano a ogni ora del giorno e della notte e allora adesso sa di bagni con le porte aperte e conversazioni da osteria, briscole in cinque e gare di rutti e pasta aglio oglio e peperoncino alle quattro di mattina quasi sbronzi.

Però no, non s’abituerà mai a quel fratello così diverso quando lo vede in mezzo ai suoi amici, ai loro amici, deciso e trascinante come a casa nemmeno sognerebbe, lui che continua a tenere la testa sul piatto se mamma a tavola lo rimprovera. Non s’abituerà mai e magari la colpa è di quei capelli biondi, si ritrova a pensare ogni tanto, che non li ha tagliati e ancora oggi gli scendono sulle spalle, ma forse c’entrerà pure l’espressione angelica che gli album di famiglia raccontano con foto in bianco e nero, perché così piacevano al loro papà. Chissà che direbbe oggi se potesse vedere Mirko nella sua camicia di felpa trasandata e con la barba di un marinaio in solitaria nell’oceano.

“E così l’hai mollato finalmente”, la voce di Monica arriva squillante dal corridoio e sveglia lei e l’intera casa da un torpore avvolgente e persino piacevole. L’altro assente, si capisce, non arriverà.
E Caterina allora respira un attimo sulla sedia, scavalla le sue gambe bellissime avvolte in un paio di jeans neri e tac, all’improvviso tira fuori gli artigli che nasconde benissimo da qualche parte dietro il suo nasino, il cappello le vola dalla testa e lei spara “E tu farti i cazzi tuoi invece?”
Giampiero s’è alzato in piedi a prendersi un bicchiere d’acqua e se ne sta accanto al frigorifero con la testa piegata per non sbatterla al solaio. “Dai, ma ti pare il caso?”, risponde, ricordandoci la verità scientifica ormai riconosciuta che l’omone in una comitiva di ragazzi sia anche il tipo più pacifico.

“Zitto tu che stiamo parlando, Gargamella”. Zitto tu che stiamo parlando. A occhio e croce, il settantacinque per cento delle conversazioni tra Monica e Giampiero consistevano in quest’unica frase che lei, Monica la vamp, rivolge a lui, Gargamella in un branco di Puffi a cui l’originale ha però tolto tutta la cattiveria.
Monica insiste senza pietà. “E insomma, come mai i piccioncini si sono lasciati?”
“Ehi Mirko, non è tutto tuo il fumo! Per pagare abbiamo diviso o sono io che ricordo male?” Dev’essere davvero un evento se Antonio prende la parola. I suoi amici lo chiamano “Unlitrodivino!”, proprio così, tutto unito e tutto d’un fiato, perché è capace di tacere per ore, ma se durante una cena al ristorante interviene puoi star certo che è ora di chiedere da bere.

Mirko è gesti misurati di attore consumato. Non è tanto il fatto che sia così dannatamente affascinante, è che purtroppo per gli altri lo sa anche lui. Si china, raccoglie il cappello e lo passa alla sorella, poi lentamente esclama un “Tutta tua!” a voce bassa con un tono gelido che mortificherebbe chiunque.
Non Antonio. Certo, a dirla tutta c’e forse qualcos’altro in quell’intervento che interrompeva un terzo grado, ma chi lo confesserebbe mai? Certo non lui, tanto geloso nel custodire i suoi pensieri. Raccoglie la canna senza guardarlo, si volta e ne respira avidamente. Questa è davvero un’altra storia.

Monica intanto non s’impiccia più ma nella sua faccia aggressiva lo vedi che non demorde, che vorrebbe sapere per filo e per segno di Caterina e di Raffaele che sembrano la coppia più bella del mondo di Celentano, e lei non riesce a spiegarsi una tutto sommato avvenente come Kate come faccia a stare con uno sfigato del genere, capace di studiare sedici ore al giorno, NERD del cazzo dagli occhiali a fondo di bottiglia e la peluria sul collo. Sta pensando proprio una cosa del genere, Monicuccia bella, quando si sente schioccare dietro. “Ma non ti stanchi mai di questa cretinata?” civetta voltandosi mentre ride sguaiata.
Ma Mirko è fatto così. Lui non chiede, pretende. Per chiamare a sé la sua ragazza (“trombamica”, aveva precisato a sua sorella, “solo trombamica”) basta che le tiri il filo del tanga da sopra i jeans e lei arriverà, “puoi star certo che arriverà, Giampiero, perché le femmine sono tutti uguali”.

Mirko e Caterina. Mirko e Caterina che sono fratelli e sono così diversi. Che si vogliono bene e che camminano a fianco, ma come rette parallele. Lui ha un aspetto così sicuro da non aver ancora capito che cazzo vuol fare nella vita e studia giurisprudenza solo perché è la facoltà più vicina a casa sua, lei con un viso così dolce sembra voler scoppiare a piangere da un momento all’altro, lei che a venticinque anni s’è appena laureata in medicina e sta pensando di mollare la specialistica e volarsene in Tanzania per Médecins Sans Frontières.

E questo è anche tutto ciò che Monica non sa. Non lo sa perché per fortuna stanotte Mirko non l’aveva portata a dormire a casa sua, e allora non l’ha sentita piangere raccontando a sua madre che lei e Raf, dopo dieci anni, si sono lasciati. “Non lo so se lasciati per sempre, mamma, questo non lo so. Però io devo decidere cosa fare, e non lo so se voglio restare qua tutta la vita e fare il medico solo perché l’hanno fatto prima il nonno e poi papà, e diventare primario in un ospedale e fare un sacco di soldi e averci un paio di figli che faranno la stessa cosa. E mi dispiace un sacco per Raf perché immagino come l’avrà presa, però io ho bisogno di pensarci con calma”.

E Mirko invece sì, c’era e l’ha sentita dal suo dormiveglia e quando in cucina si sono spente le luci è rimasto sveglio. E ha pensato a quanto faccia schifo questa faccenda, che sua sorella non possa stare con Raffaele e loro si vogliono bene davvero, e invece lui forse Monica avrebbe finito per sposarsela, magari tra una decina d’anni e perché nessuno dei due avrebbe trovato di meglio e a un certo punto passare la serata ad annoiarsi insieme davanti a un technicolor sarebbe sembrata la cosa più di buon senso da fare.

All’una, come una serata qualsiasi, Caterina si alzerà dal divano e se ne andrà, e mentre tornerà a casa sullo scooter penserà intensamente anche lei a tutta la storia, non farà altro che pensarci, cristo, e se dietro di sé andrà lasciando qualche lacrima farà sempre in tempo a dare la colpa al freddo.
Anche Mirko, vedendola alzarsi, ci penserà con la sua brava canna in mano mentre sullo schermo piove sull’impermeabile del protagonista, fingendo di non accorgersi di Monica che lo fissa, e in maniera piuttosto esplicita, sotto lo sguardo severo di Flicky. Non ne ha voglia e d’altronde non è proprio il caso, stasera. Del resto hanno tutta la vita davanti, e si preannuncia piuttosto lunga.