settembre 15, 2014

Perché scrivo

Qualcuno pensa che sia così: siamo nati Pamuk o non lo diventeremo mai; facciamo docufiction manco fossimo Hemingway o tireremo fuori per sempre pezzucoli da salotto; scriviamo paginate d’amore come Sepúlveda o le nostre ragazze è meglio che si rassegnino ai biglietti dei Baci Perugina.

Forse è che mi ricordo ancora la mia professoressa delle scuole medie che “per il tema un po’ di fantasia ce la devi mettere!”, la mamma del mio compagno che “tu a scrivere sei bravo, quindi qualcosa la inventi sempre”, il mio amico che “ma tu che sei capace, me la scriveresti una lettera per quella ragazza?” Avete tutti ragione, datemi solo un attimo per riprendermi.

Avanti, proviamo col tema. Traccia: “esprima il candidato il proprio punto di vista circa l’impatto della società dei mezzi di comunicazione di massa e dei social network sulla poesia”. Svolgimento: a me quest’idea dei versi su Facebook mi piace proprio, ogni volta che i miei amici comunisti mi spiaccicano in bacheca un Neruda come se fosse acqua fresca godo proprio come un riccio.

Dai, forse era meglio occuparsi della lettera per la ragazza. È solo che alla festa c’era davvero troppo casino; ma poi quale ragazza, dici quella là in fondo che si slinguazza col biondo con la maglietta stile after che alla fine ci si sveglia in mezzo a qualche vigna? Dici che sarebbe così romantica da apprezzare la nostra lettera d’amore? Ma sei sicuro, ma hai visto dove ha appena messo le mani? Non sarebbe meglio se le inviassimo un sms di una parola sola? Ma come quale, su…

No, ma sul serio pensate che uno sappia scrivere a prescindere? Io ogni volta che mi metto davanti a un foglio bianco per riempirlo non so proprio da dove cominciare. Alzo gli occhi e guardo il muro, imposto un’altra volta la formattazione, digito un paio di parole e le cancello subito. Mille dubbi: cosa voglio dire, con chi ne sto parlando, ma soprattutto a quante ragazze potrebbe piacere questa roba?

Dice, sì vabbe’, però sbrogliata questa matassa se sai scrivere sai scrivere, sennò ciccia. Insomma, rispondo io. Secondo me si scrive sempre su fogli di carta lucida, chi legge li alza e in controluce gli appare chi sei, si capisce subito: l’hai pubblicato per tirare su qualche soldo; volevi comunicare l’ennesima stronzata alla ragazza che ti piace; non ti veniva in mente proprio niente ma stasera era stabilito che buttassi giù un pezzo.

E poi di rado succede. Un pezzo ogni tanto, certe volte addirittura solo per poche righe, ecco che le parole allineate sulla pagina sono come un gioco enigmistico, che unisci i puntini e compare il disegno incantevole che c’era dentro la tua testa quand’hai cominciato. E tu non ci credi, ti guardi e ti riguardi il foglio soddisfatto e non aspetti altro che di pubblicarlo, e il tuo amico che lo legge, lo stesso stronzo della ragazza di prima, riesce immancabilmente a commentare la solita minchiata: “Sei davvero bravo a scrivere”.

E allora vorresti spiegarglielo che insomma, non è proprio così, che c’è tutto un lavoro dietro che non sempre riesce e che ti ci sei messo d’impegno, a limare e a modellare, e a cercare la parola giusta e a cancellare quel che non serviva, e a togliere un’altra virgola per rendere più scorrevole e ad aggiungere un punto alla fine di quella frase, che spezzasse il paragrafo. Ma tanto sarebbe inutile, non capirebbe mai, d’altra parte ancora non ha capito perché, nonostante la lettera che le hai scritto, la ragazza non gliel’ha data.

E insomma, cazzate a parte, tutta sta manfrina per dire che scrivere non è affatto una cosa immediata, che è leggere e sottolineare le frasi che meravigliano, è sedersi a una scrivania e legarsi alla sedia come Ulisse al palo mentre mille sirene cantano dolcissime, è sudare davanti a uno schermo anziché parlare con la fidanzata, è sbagliare mille volte e ripetere fino all’infinito. Chi scrive, chi scrive perché gli piace, non smette mai di migliorarsi.

Scrivere è il salto triplo, una sequenza armonica in cui ogni tappa dev’essere perfetta. Prendere la rincorsa ma senza andare troppo forte, tirare subito al massimo non è solo inutile ma anche dannoso; avvicinarsi al punto di battuta e solo a quel punto buttarci dentro tutta la forza che hai nelle gambe. Scrivere è hop step jump, non saltare né troppo lungo né troppo in alto, non frenare al secondo balzo, infine lanciarsi sulla terra battuta ormai stremati. Scrivere sono tre salti al massimo, se vanno male dobbiamo abbandonare la gara e pensare alla prossima.


E allora la prossima volta che ve lo dicono, spiegategli che non siamo nati Pamuk, Hemingway né Sepúlveda. No, a pensarci bene non siamo nemmeno nati Camilleri, Lucarelli né Dan Brown. Però una cosa la sappiamo: la vita, diceva García Márquez, “non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Noi la vita non ce la vogliamo scordare, e anche se non siamo capaci la racconteremo sempre. Possibilmente, migliorando di volta in volta.

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