C’è uno
scrittore, si chiama Dino Buzzati e scrisse un racconto che s’intitola Inviti superflui e solo per questo gli
uomini tutti dovrebbero venerarlo. No, non proprio tutti in realtà, ma quelli
che hanno amato, amano o ameranno qualcosa d’amore sconvolgente e
disinteressato, e smisurato e persino controproducente, beh loro sì che
dovrebbero.
Ma questo
scrittore che si chiama Dino Buzzati, per non farsi mancare niente, scrisse poi
un romanzo che s’intitola Il deserto dei
Tartari e tutti allora dissero che era un capolavoro questa storia del
tempo che passa e non passa mai e comunque lascia tutto com’è e noi stiamo
sempre aspettando che invece qualcosa cambi. E conta poco, vabbè, ma anch’io lo
dico che è un capolavoro, epperò lo odio, lo odio proprio alla follia il
tenente Drogo, e con lui la Fortezza Bastiani e la sua dannata attesa e
l’intera storia, che pure ho divorato d’un fiato su un treno per Catania.
Lo odio perché
è colpa di questo capolavoro se, oggi, così poca gente conosce un altro romanzo
che Dino Buzzati pubblicò venticinque anni dopo e che io non riesco a smettere
di rileggere a distanza d’anni dalla prima volta (facevo ancora il liceo) e a ogni
giro la pelle si accappona più del precedente, un romanzo che lui, con la
stessa modestia di Inviti superflui,
intitolò semplicemente Un amore.
Un amore racconta, allora, di un quasi
cinquantenne, Antonio Dorigo, che prende una sbandata per la Laide, una
ragazzina conosciuta in una casa d’appuntamenti, e però basta poco tempo e
capisce che no, aspetta, non è una sbandata, no che non lo è. Dorigo single
incallito, refrattario ai legami, noto architetto e coreografo milanese che per
una donna bastano ventimila lire, Dorigo sì, della Laide s’è proprio
innamorato.
Naturalmente
la storia non può che andare a catafascio. La disgraziata ragazzina dalla vita
ha preso solo calci in culo ed è così disgraziata, la Laide, esclusa dal mondo
borghese e dalle sue “vetrine, gli ori, le ricchezze” già citati, appunto,
dentro Inviti superflui, così
frustrata dal non poter percorrere “le luci, la folla, gli uomini che [la] guardano, le vie dove dicono si
possa incontrar la fortuna” che non smette mai di ricordarglielo, al povero
Dorigo.
Ed è quel che
succede spesso, che lo scotto dell’infelicità d’una donna lo debba pagare il
solo uomo a cui è toccata la mala sorte d’amarla, quella donna, e Dorigo ci
impazzisce nel flusso interiore continuo di chi non riesce a smettere di
pensare alla propria ossessione. Buzzati la rende con un monologo che spesso
non abbisogna di virgolette né di punteggiatura, sconnesso e illogico com’è,
mentre a me che leggo vengono i brividi temendo che l’autore m’abbia letto nel
pensiero.
D’altra parte,
non c’è stato alcun motivo perché s’innamorasse proprio di lei, zero cose in
comune e zero possibilità che ne trovino, eppure per Dorigo è “come se qualcosa
l’avesse toccato dentro… Come se ci fosse stata una predestinazione. Come
quando uno, senza alcun particolare sintomo ha la sensazione di stare per
ammalarsi, ma non sa di che cosa né il motivo”, o almeno così se lo spiega nel
capitolo VII.
Né si tratta
di questa gran bellezza, che la Laide è appena carina e deve pure mettercisi
d’impegno, eppure niente, non c’è verso di liberarsene, che s’è portata via
tutto e senza non val la pena neanche di vivere, per Dorigo. E lo sentiamo lo
struggimento d’un uomo, lo stesso Buzzati che questa storia pare l’abbia
vissuta davvero, tanto che qualcuno se lo ricorda totalmente assente, con la
testa fra le mani, durante la presentazione d’un suo libro.
Non c’è rimedio,
“in ogni più recondito meandro del cervello… là in fondo trovava sempre lei;
che non lo guarda neppure, che non si accorge neppure di lui, che balla
inverecondi balli manipolata in ogni parte del corpo dal partner sudicione e
maligno, che si spoglia sotto gli occhi del ragionier Fumaroli, conosciuto un
minuto prima, maledizione sempre lei, insediata selvaggiamente nel suo
cervello, che dal suo cervello guarda gli altri, telefona agli altri, tresca
con gli altri fa l’amore con gli altri, esce parte sempre in agitazione
frenetica per una quantità di sue particolari faccende e traffici misteriosi”.
Chi lo sa, magari
a quella presentazione Dino Buzzati sarà stato così sconsolato perché, proprio come
in Un amore, lo sa che la sua bella
lo tradisce, che dovrà sottostare ai suoi capricci per quanto fantasiosi e
crudeli nei suoi confronti, gli sarà toccato di sopportare chissà quante umiliazioni
e, quel che è peggio, come Dorigo avrà sorvolato su ogni cosa facendo finta di
non vederla, di niente ha prove per il semplice fatto che si rifiuta di
riconoscerle, esattamente come ogni persona innamorata.
L’abbiamo
vissuto tutti quando abbiamo amato la nostra Laide, “quando lei parla, ogni
dubbio se ne va. Tale è il genuino accento di quella ragazzina. No, è
impossibile che dica delle bugie. Ci sarebbe un sia pur lievissimo
tentennamento, incertezza, nota falsa, titubanza”. E noi ce ne accorgeremmo,
siamo intelligenti, “di una sensibilità addirittura morbosa nel percepire le
più sottili sfumature” (ricordate Barthes?)
Non so per voi,
ma per me ce n’è abbastanza per spiegare certe mie storie, le mie imprese
amorose e anche qualcosa di più, tipo la vita stessa. Insomma, leggetevi Un amore, imparatelo a memoria, è il
libro giusto se continuate a incontrare la persona sbagliata.
P.S. Lo so che i critici
recensiscono Un amore in relazione a Il deserto dei Tartari, e tutti concordi
che l’amore è l’illusione di vincere la morte, ma che io come critico non valgo
un cazzo non lo scopriamo oggi, se v’è piaciuta tenetevi questa e buon pro vi
faccia.
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