Appoggiata a
un paletto di quelli che impediscono alle automobili di accedere ai vicoli, la
ragazza aspetta qualcuno. I ricci che le strabordano dal berretto di lana, gli
auricolari fucsia nelle orecchie, le scarpe da ginnastica sopra i jeans
strappati all'altezza del ginocchio. Nessun segno di nervosismo particolare, solo ogni
tanto si guarda attorno, si gira a destra e poi a sinistra mentre le macchine le
sfrecciano davanti, le mani in tasca per proteggerle dal freddo secco o perché,
più probabilmente, così può sentire vibrare lo smartphone.
Non è
difficile riconoscere qualcuno che aspetta. Ma se c’è un gioco che trovo molto
divertente, è capire cosa stia aspettando. D'altra parte ce ne sono a decine, di attese.
Ci sono attese,
un po’ leopardianamente, foriere di felicità più che la felicità stessa. Attese
che, ad esempio, promettono baci contro i muri e i tronchi degli alberi e bisbigli
di desiderio e poi d’appagamento e, insomma, d’amore. Ma anche altre che profumano
di infanzia e di rincorse in mezzo a fili d’erba e fiori di campo, di
rimpiattini e carne alla griglia e cugini ormai lontani, che rivedi giusto il
giorno di Pasqua senza sapere bene di cosa parlarci.
Ce ne sono
altre, di attese, che invece non sono affatto romantiche. Sanno di sale
operatorie e anestesie totali, di camici bianchi e facce compassionevoli a cui
vien voglia di tirare pugni, attese che nessuno vorrebbe vivere ma in cui quasi
tutti finiamo per incappare. Meno crudeli ma brutte uguali, certe altre precedono, lo sappiamo già, un finale che non vorremmo e allora ci trascorre davanti tutta la storia che
sta per terminare, e ogni singolo momento allegro e triste, e significativo e cretino, e dolce e amaro, tanto vicino e tanto lontano, mentre ti domandi come possa
mancarti qualcosa che, in fondo, non se n’è ancora andata, come con le bolle di
sapone dopo che hai soffiato nel cerchio e te le vedi volare sopra la testa.
E ancora, attese
che ti consumano e al momento della verità ci arrivi già spompato, attese che
ti infastidiscono e prenderesti a calci chiunque ti passa accanto, attese che ti
stancano e non vedi l’ora che finiscano, attese che ti emozionano e, in
segreto, vorresti durassero all’infinito. Attese al buio o delle quali sai benissimo a
cosa porteranno, attese in compagnia o da solo, attese in tranquillità o con i
muscoli tesi come le corde del violino.
Attese che
intanto ti metti a pensare a quante cose devi fare ancora e ti torna in mente quell’impresa
che, senza risultato, da almeno dieci anni ti ripromettevi di portare a compimento e che ora, incredibile, decidi di cominciare davvero. Attese che, se non te ne stai
con la faccia su Whatsapp e guardi intorno a te, ci trovi di certo qualcun altro che sta
facendo la tua stessa cosa e allora magari cominciate a raccontarvi di cosa
state aspettando e, in quell’istante esatto, di aspettare avrete già smesso.
Così, intanto che mi
figuro tutte queste cose stupide, la ragazza coi ricci è sparita come in una
nuvola di fumo e io, io non saprò mai in cosa consisteva la sua, di attesa. Ed è
nello stesso momento che un’altra attesa è cominciata. La mia, l’attesa per una
nuova storia da immaginare, che non so se sarà quella del tizio con la valigia dall’altra
parte del marciapiede o del bambino che porta sulle spalle un borsone da calcio
più grosso di lui.
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