aprile 06, 2014

Ester

Da quel lato dell’edificio il sole avrebbe battuto di pomeriggio perciò alle nove e mezzo, subito dopo il caffelatte al volo, l’aula era avvolta da una penombra che prometteva di conciliarmi il sonno con una rapidità che neanche certe pilloline apposta.

Con un movimento che avrei imparato a riconoscere tra mille, lei s’era alzata gli occhiali sulla fronte e aveva detto tipo: “Buongiorno a tutti, salutiamo i ragazzi che sono qui nell’ambito del progetto Erasmus. Come vi chiamate, ragazzi?”

E noi allora avevamo pronunciato i nostri nomi e subito predisposto il sorriso alle solite domande, ma a quel punto lei aveva già tirato gli occhiali giù ed era passata dal castigliano all’inglese: “Bene, sui vostri tavolini trovate un foglio con delle tracce, scrivete pure”.

Così, senza un dizionario? Senza preavviso? Senza, senza un’idea? Non avrei saputo da dove cominciare. Come andò avanti non ricordo, avrò certo abbozzato qualcosa che oggi non saprei dire, di quella mattina m’è rimasto solo lo smarrimento assoluto mentre mi domandavo come m’era saltato in mente di frequentare un corso d’inglese in Spagna. E chi fosse quella matta.

Lei era l’insegnante, insomma, e si chiamava Ester. Più o meno trentacinque anni, in testa un caschetto di capelli lunghi abbastanza da legarci ogni tanto un codino minuscolo, un metro e un palmo d’energia scoppiettante, Ester si passava l’intera lezione davanti alla cattedra cui era appoggiata. Così era più vicina agli studenti, e non smetteva un attimo di stimolare correggere incoraggiare.

Bella no, forse non era proprio bella, però però. E che impatto, poi.

Ma non era finita. Lezione successiva, il foglio coi temini della volta prima torna indietro già corretto. E fin qua, dice, tutto normale. Sennonché le aggiunte di Ester sono almeno di dieci colori differenti. Non capisco bene, lei mi vede guardarlo allucinato e magari pensa che voglia criticarla, poi si fa tutta contenta e avvicinandosi esclama: “Ah già, tu non hai questa!”

Così dicendo da un libro che è un soffietto tira fuori un mezzo A4, e nella legenda che ora ho in mano a ogni colore corrisponde un tipo diverso d’errore, in una specie d’arcobaleno delle cazzate che scrivono gli studenti. Tornato a casa ho ormai deciso: non è una matta, è un genio.

Né c’era in Ester solo l’entusiasmo, bensì anche la disciplina di un’insegnante che, per la stesura delle composizioni da spedirle tramite email, aveva previsto un apposito layout a cui tutti noi dovevamo attenerci, in modo da renderle più semplice la correzione.

Dev'essere così, tra temi e grammatica e parole nuove e approfondimenti, che in tre mesi di corso imparai più inglese di quanto ne sapessi fino a prima di conoscere Ester, ma non era nemmeno quello.


Da lei imparai soprattutto ad amare ciò che avrei fatto e a buttarmici dentro come in una centrifuga, a studiare e a migliorarmi giorno per giorno, a metterci grinta ma sempre con allegria, imparai che solo così il lavoro nobilita l’uomo. E ancora oggi, a quasi dieci anni di distanza, nel mio piccolo continuo ad impegnarmi come m'ha insegnato lei.

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