Da quel lato dell’edificio il
sole avrebbe battuto di pomeriggio perciò alle nove e mezzo, subito dopo il
caffelatte al volo, l’aula era avvolta da una penombra che prometteva di
conciliarmi il sonno con una rapidità che neanche certe pilloline apposta.
Con un movimento che avrei
imparato a riconoscere tra mille, lei s’era alzata gli occhiali sulla fronte e
aveva detto tipo: “Buongiorno a tutti, salutiamo i ragazzi che sono qui nell’ambito
del progetto Erasmus. Come vi chiamate, ragazzi?”
E noi allora avevamo pronunciato
i nostri nomi e subito predisposto il sorriso alle solite domande, ma a quel
punto lei aveva già tirato gli occhiali giù ed era passata dal castigliano all’inglese:
“Bene, sui vostri tavolini trovate un foglio con delle tracce, scrivete pure”.
Così, senza un dizionario? Senza preavviso?
Senza, senza un’idea? Non avrei saputo da dove cominciare. Come andò avanti non
ricordo, avrò certo abbozzato qualcosa che oggi non saprei dire, di quella
mattina m’è rimasto solo lo smarrimento assoluto mentre mi domandavo come m’era
saltato in mente di frequentare un corso d’inglese in Spagna. E chi fosse
quella matta.
Lei era l’insegnante, insomma, e
si chiamava Ester. Più o meno trentacinque anni, in testa un caschetto di
capelli lunghi abbastanza da legarci ogni tanto un codino minuscolo, un metro e
un palmo d’energia scoppiettante, Ester si passava l’intera lezione davanti
alla cattedra cui era appoggiata. Così era più vicina agli studenti, e non
smetteva un attimo di stimolare correggere incoraggiare.
Bella no, forse non era proprio bella, però
però. E che impatto, poi.
Ma non era finita. Lezione successiva,
il foglio coi temini della volta prima torna indietro già corretto. E fin qua,
dice, tutto normale. Sennonché le aggiunte di Ester sono almeno di dieci colori
differenti. Non capisco bene, lei mi vede guardarlo allucinato e magari pensa
che voglia criticarla, poi si fa tutta contenta e avvicinandosi esclama: “Ah
già, tu non hai questa!”
Così dicendo da un libro che è un
soffietto tira fuori un mezzo A4, e nella legenda che ora ho in mano a ogni
colore corrisponde un tipo diverso d’errore, in una specie d’arcobaleno delle
cazzate che scrivono gli studenti. Tornato a casa ho ormai deciso: non è una
matta, è un genio.
Né c’era in Ester solo l’entusiasmo,
bensì anche la disciplina di un’insegnante che, per la stesura delle
composizioni da spedirle tramite email, aveva previsto un apposito layout a cui
tutti noi dovevamo attenerci, in modo da renderle più semplice la correzione.
Dev'essere così, tra temi e grammatica e parole
nuove e approfondimenti, che in tre mesi di corso imparai più inglese di quanto ne sapessi
fino a prima di conoscere Ester, ma non era nemmeno quello.
Da lei imparai soprattutto ad amare
ciò che avrei fatto e a buttarmici dentro come in una centrifuga, a studiare e
a migliorarmi giorno per giorno, a metterci grinta ma sempre con allegria, imparai
che solo così il lavoro nobilita l’uomo. E ancora oggi, a quasi dieci anni di
distanza, nel mio piccolo continuo ad impegnarmi come m'ha insegnato lei.
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