maggio 24, 2012

Il giorno che Nikita


Come te la immagini la Russia, ragazzo? Quando senti questo nome pensi al Caucaso e alle sue pianure o a distese di ghiaccio fin dentro le città, ai binari della Transiberiana o al regime comunista che fino a qualche anno fa popolava gli incubi delle notti dell’Occidente? A tutte queste cose insieme pensava un giorno di settembre del 1971 Nikita Chruščëv, mentre con la grafia incerta di chi ha imparato a scrivere a trent’anni tirava giù le sue memorie e aspettava di finire un’esistenza ormai senza senso.
In Europa si spegneva l’incendio del leggendario maggio di Parigi, intanto queste fotografie gettavano acqua sul fuoco dentro Nikita, masochista come chi nella miseria ricorda il tempo felice. Felice di un’infanzia umile ma operosa, di avere calcato le pianure di casa sua come pastore e di esserci poi tornato da Segretario del Partito, di aver raggiunto ciò che nella sua povertà e ignoranza di bambino non sarebbe mai stato in grado nemmeno di sognare.

E ora macerie, nient’altro che macerie, eppure me lo ricordo come se fosse oggi. Invece sono dieci anni e sembra un secolo. Quando mi passano la chiamata non riesco proprio a crederci, devo avere le traveggole eppure com’è possibile, proprio oggi che la bottiglia di vodka non l’ho nemmeno sfiorata? Oppure sì, certo, sarà lo scherzo di un compagno buontempone di qualche ufficio pubblico che non ha voglia di lavorare! Allora aveva proprio ragione quel dannato Bulgakov! Ma no, ma no, Nikita, non si permetterebbero mai, lo sanno bene che se si facessero scoprire li fucileremmo.
Squilla da mezz’ora, adesso basta, è ora di alzare quella maledetta cornetta. Nel russo stentato dall’altra parte, l’accento rivela inconfondibilmente le origini latine di chi sta parlando:
“Pronto? Qui è il segretario di stato vaticano, parla il presidente Chruščëv?”
“In persona, ditemi pure”
“Stiamo per metterla in comunicazione con il Santo Padre, che ha manifestato la volontà di trasmetterle i suoi auguri di buona Pasqua”.
Chi avrebbe mai potuto dirlo, per la maledetta steppa caucasica? Ah, se solo mio padre fosse ancora vivo vorrei proprio vederla. Già me lo immagino, a saltare così in alto sulla sedia che i pantaloni di fustagno gli si strapperebbero, e poi mi direbbe “Ne è passato di tempo da quando ammassavamo il concime in quella stalla puzzolente, Nikita!”

S’infervora Nikita, d’improvviso sembra tornargli la voglia di vivere, perché i ricordi sono la sua condanna ma anche tutto ciò a cui gli rimane da aggrapparsi, quella che sembra vanagloria è solo l’ultima cartuccia, quella a salve di chi non ne ha più da sparare. A chi l’ha conosciuto uno tra gli uomini più potenti del mondo, non potrebbe far altro che pena un Nikita Chruščëv tanto velleitario, ma se come dicono la vita prende e dà allora lui adesso è lì per dimostrarlo.

È dentro il Vaticano ormai, il papa celebra l’Angelus dalla sua finestra e Nikita, dentro, lo aspetta bellicoso.
“E insomma, quanto durerà questo discorso da due soldi? Cosa ci fa tutta quella gente in piazza ad ascoltare? Non mi toccherà certo pensare in tutta ‘sta commedia del comunismo quel Marx non aveva completamente sbagliato quando diceva “oppio dei popoli”! Certo che però ne avremmo da imparare, questo tizio vestito di bianco ci mette tutti nel sacco!
Lo vedi così inerme nella sua tunica bianca e l’espressione così mite che ti viene quasi da crederci alla storia del Crocifisso che è morto per noi, del ricco che non entrerebbe in paradiso più del cammello nella cruna di un ago, della vita di sofferenza per aspirare a un aldilà migliore… Lo vedessero tutti quanti ciò che visto io in questi due giorni, un cumulo di debosciati che si trastullano negli ozi della vita di palazzo, un raduno di banchieri e puttane che se la spassano a spese dei fedeli, un centro di potere nel quale si decide quale guerra sì e quale guerra no. Ma ci pensi, loro, che vorrebbero indicare a me la via della santità!
Eccolo, è quello lì che ha capito tutto, mentre manovra il microfono e giochicchia su quell’affare pieno di pulsanti e manopole quello non sta nemmeno ad ascoltarli, si prende il suo stipendio e se ne torna a casa, altroché!”

Su questo, in effetti, bisognerà pur dire che nel suo vaneggiare Nikita non aveva tutti i torti. Proprio quella mattina Stefano Rossi, con il suo cognome da esempi dei politici, mentre si vestiva smaltendo la sbornia della notte prima, masticava solo una gomma per l’alito e pensieri di ventisette del mese. E adesso, vedendolo tanto rilassato dinanzi al suo mixer lo avresti detto il timoniere di una nave durante la bonaccia, quasi sbracato, avrebbe osato dire, ma sempre per quanto la situazione potesse consentirlo, perché lo stipendio era l’unica cosa che dentro l’intero stato Vaticano uno come lui potesse considerare sacra.
A sentirne parlare in questi termini, potresti pensare che Stefano Rossi fosse uno di quei cinici che ti passano davanti mentre fai la fila alle Poste. Balle. Gli sarebbe piaciuto, forse, e invece. Tutte balle.
Trentaquattro anni e ancora non doveva aver imparato niente della vita vera, se quella sciacquetta era l’ennesima a essere riuscita nella non difficile impresa di fregarlo in pieno. S’era svegliato una mattina qualunque di sei mesi fa e degli occhi neri di Elisabetta non c’era più traccia, e se per questo nemmeno di quei quattro soldi che teneva a casa, giusto per non lasciare dubbi su chi aveva vinto e chi aveva perso.
Lui non lo ammetterebbe mai, ma è questo il vero motivo per cui adesso se ne sta lì con l’aria trasandata nel suo vestito grigio scuro, che prima di essere indossato da lui era stato di certo elegante, e gli occhi socchiusi e abbassati sul suo strumento di lavoro. Una dose abbondante di gel ha addomesticato i ciuffi ribelli della sua chioma scapigliata, la barba è cortissima, avrà ricordato di farla un minuto prima di uscire di casa, la camicia è bianchissima e non fa una piega quasi l’avesse appena presa in tintoria e caricata al volo in macchina. E insomma, la cura di ogni dettaglio non smette di rivelare la sciatteria dell’insieme, di uno di quelli cui non puoi rimproverare niente se non di essere loro stessi.

Nel suo deliquio di quel pomeriggio, Nikita Chruščëv confondeva con terribile sofferenza se stesso e Stefano Rossi, entrambi defraudati da una vita che restituiva loro infinitamente meno di quanto le avessero dato e, in ultima analisi, a questo danno aggiungeva la beffa del nemico, ancora oggi sorridente in un angolo di paradiso qualsiasi. Una mano di figlia ne asciugava il sudore che gli imperlava la fronte quando si svegliò, affannato con la testa appena fuori dalle coperte, stremato per lo sforzo ma finalmente sollevato.
“Ancora quella storia” sussurrò senza farsi sentire la donna al marito, “continua a sognare d’essere stato in Vaticano, Aleksej”.
“Stai tranquillo papà, va tutto bene”.
 “Grazie, Rada”, le sorrise Nikita.
Un sorriso gli affiorò sul volto, intanto che gli oggetti si sfocavano davanti ai suoi occhi.
Fu così che se ne andò Nikita Chruščëv, un pomeriggio di fine estate sognando il Vaticano che non aveva mai visto.

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