Come te la immagini la Russia, ragazzo? Quando senti questo
nome pensi al Caucaso e alle sue pianure o a distese di ghiaccio fin dentro le
città, ai binari della Transiberiana o al regime comunista che fino a qualche
anno fa popolava gli incubi delle notti dell’Occidente? A tutte queste cose
insieme pensava un giorno di settembre del 1971 Nikita Chruščëv, mentre con la
grafia incerta di chi ha imparato a scrivere a trent’anni tirava giù le sue
memorie e aspettava di finire un’esistenza ormai senza senso.
In Europa si spegneva l’incendio del leggendario maggio di
Parigi, intanto queste fotografie gettavano acqua sul fuoco dentro Nikita, masochista
come chi nella miseria ricorda il tempo felice. Felice di un’infanzia umile ma
operosa, di avere calcato le pianure di casa sua come pastore e di esserci poi
tornato da Segretario del Partito, di aver raggiunto ciò che nella sua povertà
e ignoranza di bambino non sarebbe mai stato in grado nemmeno di sognare.
E ora macerie, nient’altro che macerie, eppure me lo ricordo
come se fosse oggi. Invece sono dieci anni e sembra un secolo. Quando mi
passano la chiamata non riesco proprio a crederci, devo avere le traveggole
eppure com’è possibile, proprio oggi che la bottiglia di vodka non l’ho nemmeno
sfiorata? Oppure sì, certo, sarà lo scherzo di un compagno buontempone di
qualche ufficio pubblico che non ha voglia di lavorare! Allora aveva proprio
ragione quel dannato Bulgakov! Ma no, ma no, Nikita, non si permetterebbero
mai, lo sanno bene che se si facessero scoprire li fucileremmo.
Squilla da mezz’ora, adesso basta, è ora di alzare quella
maledetta cornetta. Nel russo stentato dall’altra parte, l’accento rivela
inconfondibilmente le origini latine di chi sta parlando:
“Pronto? Qui è il segretario di stato vaticano, parla il
presidente Chruščëv?”
“In persona, ditemi pure”
“Stiamo per metterla in comunicazione con il Santo Padre,
che ha manifestato la volontà di trasmetterle i suoi auguri di buona Pasqua”.
Chi avrebbe mai potuto dirlo, per la maledetta steppa caucasica?
Ah, se solo mio padre fosse ancora vivo vorrei proprio vederla. Già me lo
immagino, a saltare così in alto sulla sedia che i pantaloni di fustagno gli si
strapperebbero, e poi mi direbbe “Ne è passato di tempo da quando ammassavamo il
concime in quella stalla puzzolente, Nikita!”
S’infervora Nikita, d’improvviso sembra tornargli la voglia
di vivere, perché i ricordi sono la sua condanna ma anche tutto ciò a cui gli
rimane da aggrapparsi, quella che sembra vanagloria è solo l’ultima cartuccia,
quella a salve di chi non ne ha più da sparare. A chi l’ha conosciuto uno tra
gli uomini più potenti del mondo, non potrebbe far altro che pena un Nikita
Chruščëv tanto velleitario, ma se come dicono la vita prende e dà allora lui adesso
è lì per dimostrarlo.
È dentro il Vaticano ormai, il papa celebra l’Angelus dalla
sua finestra e Nikita, dentro, lo aspetta bellicoso.
“E insomma, quanto durerà questo discorso da due soldi? Cosa
ci fa tutta quella gente in piazza ad ascoltare? Non mi toccherà certo pensare
in tutta ‘sta commedia del comunismo quel Marx non aveva completamente
sbagliato quando diceva “oppio dei popoli”! Certo che però ne avremmo da
imparare, questo tizio vestito di bianco ci mette tutti nel sacco!
Lo vedi così inerme nella sua tunica bianca e l’espressione
così mite che ti viene quasi da crederci alla storia del Crocifisso che è morto
per noi, del ricco che non entrerebbe in paradiso più del cammello nella cruna
di un ago, della vita di sofferenza per aspirare a un aldilà migliore… Lo
vedessero tutti quanti ciò che visto io in questi due giorni, un cumulo di
debosciati che si trastullano negli ozi della vita di palazzo, un raduno di
banchieri e puttane che se la spassano a spese dei fedeli, un centro di potere
nel quale si decide quale guerra sì e quale guerra no. Ma ci pensi, loro, che
vorrebbero indicare a me la via della santità!
Eccolo, è quello lì che ha capito tutto, mentre manovra il
microfono e giochicchia su quell’affare pieno di pulsanti e manopole quello non
sta nemmeno ad ascoltarli, si prende il suo stipendio e se ne torna a casa,
altroché!”
Su questo, in effetti, bisognerà pur dire che nel suo
vaneggiare Nikita non aveva tutti i torti. Proprio quella mattina Stefano
Rossi, con il suo cognome da esempi dei politici, mentre si vestiva smaltendo
la sbornia della notte prima, masticava solo una gomma per l’alito e pensieri
di ventisette del mese. E adesso, vedendolo tanto rilassato dinanzi al suo
mixer lo avresti detto il timoniere di una nave durante la bonaccia, quasi
sbracato, avrebbe osato dire, ma sempre per quanto la situazione potesse consentirlo,
perché lo stipendio era l’unica cosa che dentro l’intero stato Vaticano uno
come lui potesse considerare sacra.
A sentirne parlare in questi termini, potresti pensare che
Stefano Rossi fosse uno di quei cinici che ti passano davanti mentre fai la
fila alle Poste. Balle. Gli sarebbe piaciuto, forse, e invece. Tutte balle.
Trentaquattro anni e ancora non doveva aver imparato niente
della vita vera, se quella sciacquetta era l’ennesima a essere riuscita nella
non difficile impresa di fregarlo in pieno. S’era svegliato una mattina
qualunque di sei mesi fa e degli occhi neri di Elisabetta non c’era più
traccia, e se per questo nemmeno di quei quattro soldi che teneva a casa,
giusto per non lasciare dubbi su chi aveva vinto e chi aveva perso.
Lui non lo ammetterebbe mai, ma è questo il vero motivo per
cui adesso se ne sta lì con l’aria trasandata nel suo vestito grigio scuro, che
prima di essere indossato da lui era stato di certo elegante, e gli occhi
socchiusi e abbassati sul suo strumento di lavoro. Una dose abbondante di gel
ha addomesticato i ciuffi ribelli della sua chioma scapigliata, la barba è
cortissima, avrà ricordato di farla un minuto prima di uscire di casa, la
camicia è bianchissima e non fa una piega quasi l’avesse appena presa in
tintoria e caricata al volo in macchina. E insomma, la cura di ogni dettaglio
non smette di rivelare la sciatteria dell’insieme, di uno di quelli cui non
puoi rimproverare niente se non di essere loro stessi.
Nel suo deliquio di quel pomeriggio, Nikita Chruščëv
confondeva con terribile sofferenza se stesso e Stefano Rossi, entrambi
defraudati da una vita che restituiva loro infinitamente meno di quanto le
avessero dato e, in ultima analisi, a questo danno aggiungeva la beffa del
nemico, ancora oggi sorridente in un angolo di paradiso qualsiasi. Una mano di
figlia ne asciugava il sudore che gli imperlava la fronte quando si svegliò,
affannato con la testa appena fuori dalle coperte, stremato per lo sforzo ma
finalmente sollevato.
“Ancora quella storia” sussurrò senza farsi sentire la donna
al marito, “continua a sognare d’essere stato in Vaticano, Aleksej”.
“Stai tranquillo papà, va tutto bene”.
“Grazie, Rada”, le
sorrise Nikita.
Un sorriso gli affiorò sul volto, intanto che gli oggetti si
sfocavano davanti ai suoi occhi.
Fu così che se ne andò Nikita Chruščëv, un pomeriggio di
fine estate sognando il Vaticano che non aveva mai visto.
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