maggio 14, 2012

Quello che (non) ho

Fabio Fazio non mi piace, come tanti lo trovo viscido e mai veramente incisivo, per codardia e non per incapacità. Epperò le persone che hanno qualcosa da dire, DAVVERO qualcosa da dire, vanno quasi tutte da lui e allora com’è come non è le sue trasmissioni mi trovo a seguirle tutti.

A proposito di gente che sa di che parlare, in questo programma l’altro padrone di casa si chiama Roberto Saviano e ha un’idea rivoluzionaria nella televisione dei tempi “stringatissimi” (aaah!): lanciarsi in monologhi che per di più no, non abbisognano del carisma di Mr. Celentano. No, lui pretende che realmente si ascoltino i contenuti. Roba da matti.

Ricordo che l’anno passato circa questa faccenda e Vieniviaconme ebbi una discussione su Fb con della gente che si seccava di starlo a sentire e conclusi con un “Ve lo meritate Beppe Grillo!”. Esageravo, certo, uno di loro mi escluse addirittura dai suoi contatti, fatto sta che oggi Grillo ha almeno il 7% e io penso ancora che l’antidoto a chi la vince con le battute e le boutades può essere solo riflettere, lavorare su se stessi, approfondire, migliorarsi.

Tanto più che Quello che (non) ho è un programma fatto notevolmente meglio del suo predecessore dalle liste insulse. Si articola così: ciascuno degli ospiti sceglie la parola che più sente sua e, nel presentarcela, ci descrive a partire da essa la propria visione del mondo. Certo, si incappa nella solita rassegna di membri della ditta Che tempo che fa e dintorni, vuoi la Littizzetto che ci illustra il pensoso stato in cui versa la satira televisiva italiana (se è lei la migliore, figuriamoci il resto), vuoi Gramellini Travaglio Lerner che la buttano in politica come ce ne fosse ancora bisogno. Più gradevole Paolo Rossi che parla di finanza, e con lui Erri De Luca, che pure non mi è propriamente simpatico ma che almeno si distingue per originalità.

C’è però anche tutto il resto, personaggi in parte sconosciuti al grande pubblico e forse proprio per questo deliziano. Assistiamo così al monologo di Lila Azam Zanganeh (vuoi conoscere la differenza tra avvenenza e bellezza? Guardala un po’), ma anche al giornalista Ermanno Rea, che descrive la forza dirompente di chi sa sognare l’impossibile. O ancora l'Yvan Sagnet di reportiana memoria, per me senza dubbio un VERO eroe dei nostri tempi con la sua lotta per i diritti degli immigrati.

Lo spettacolo è perciò godibile, nella misura in cui non immaginiamo il suo spiegarmi come un filo da un gomitolo, ma come una raggiera che fa capo a un unico centro dal quale si distanzia variabilmente, ora raggiungendo picchi (come la lettura di Francesca Inaudi) e ora calando nuovamente verso la realtà. Ma è toccante pure la dedica di Pierfrancesco Favino alla nascitura figlioletta, se poi non arrivasse quel Fazio che ammicca al pubblico ricordandogli che termini come “apericena” o “movida” non si possono sentire (il gran paraculo!).

Una raggiera, un centro. E il centro, sperando di non rimetterci altre amicizie su Fb, sono i monologhi di Roberto Saviano. Due, per la precisione. Il primo è utilissimo e ci racconta con il tono accorato dello scrittore il massacro di Beslan. Ecco, dimenticavo, la forza dei monologhi di Saviano sta secondo me nella sua capacità di farci empatizzare con i “deboli” della storia che di volta in volta racconta.
Il discorso più toccante, però, è per me il primo, dedicato al lavoro e alla crisi, ai suicidi e a come essi siano anche legati allo sciacallaggio della camorra che vi specula con finanziarie come l’Aspide s.r.l. Da brividi, poi, la conclusione che cita Calamandrei e una piccola e vecchia storia della Sicilia, di quando ancora sapevamo essere grandi.

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